Le ragioni del cuore

Quando ho letto che Marco Cappato e Mina Welby rischiavano la galera, sono andato in ansia. Nell’aula della Corte d’Assise di Massa Carrara, il pm Marco Mandi aveva chiesto infatti per loro una condanna a 3 anni e 4 mesi. Ma l’aveva fatto, codice alla mano, pronunciando queste parole: «Chiedo la condanna con tutte le attenuanti generiche e ai minimi di legge. Il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai loro nobili intenti. È stato compiuto un atto nell’interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito. Colpevoli sì, ma meritevoli di alcune attenuanti che in coscienza non mi sento di negare».

Ho tirato un sospiro di sollievo quando è uscita la sentenza: «Il fatto non costituisce reato». Non è stato «aiuto al suicidio». È stato qualcos’altro, che in Italia ancora non trova un nome e una via legale. Ma il gesto compiuto da Mina Welby e Marco Cappato, che il 13 luglio 2017 accompagnarono Davide Trentini, 53 anni, malato di Sla, a morire in una clinica Svizzera, è stato ritenuto degno di assoluzione. Così come era già successo per Dj Fabo, è arrivata un’altra sentenza storica.

Su questa sentenza incide il pronunciamento della Corte Costituzionale del 2019, che così ha stabilito: «Non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Cappato fa notare che la sentenza di ieri rafforza questo principio: «Davide Trentini non aveva sostegni vitali, cioè macchine. Ma probabilmente i giudici hanno interpretato in senso più ampio l’idea di sostegno vitale includendovi, come dicevamo noi, anche terapie farmacologiche e pratiche manuali necessarie alla sopravvivenza». Resta inevasa l’indicazione della Consulta: «In attesa di un indispensabile intervento del legislatore…».

Nell’ultimo atto di Bohème, la famosa e stupenda opera di Giacomo Puccini, di fronte all’agonia dell’amica Mimì, il filosofo Colline decide di vendere la sua vecchia zimarra per ricavare un po’ di denaro con cui affrontare l’emergenza e consiglia a Schaunard di fare anche lui un atto di pietà: accennando a Rodolfo chino su Mimì addormentata, gli suggerisce di allontanarsi con umana discrezione per lasciarli soli. Schaunard, musicista, si alza in piedi e commosso si rivolge a Colline: «Filosofo ragioni! È ver! … Vo via!». In quella soffitta tacciono i rigori dell’arte per fare spazio alle delicatezze del cuore.

Meno male che i giudici della Corte d’Assise di Massa Carrara hanno ragionato più col cuore che col codice penale. Ora bisognerebbe che altrettanta disponibilità a ragionare di cuore la dimostrassero i legislatori e gli uomini di Chiesa. I primi devono sforzarsi di trovare una regolamentazione ragionevole relativamente ai casi di suicidio assistito, evitando di confondere questo discorso con quello dell’eutanasia vera e propria (discorso diverso, che tuttavia non va sbrigativamente esorcizzato): non si può continuare a relegare questi drammi umani nel dimenticatoio per delegarli a pochi, coraggiosi e ammirevoli kamikaze dell’etica.

I secondi, mi riferisco alle gerarchie cattoliche, devono uscire dalla tortura del dogmatismo, optando evangelicamente per l’umana pietà, per la carità che non può e non deve imporre sofferenze assurde a nessuno in nome di astratte regole religiose. Il discorso è delicato, ma proprio per questo deve essere affrontato col cuore e non col catechismo.