Il fiatone trumpiano

Grandi e diffuse manifestazioni negli Usa e in tutto il mondo per chiedere giustizia per George Floyd e per tutti gli afroamericani morti per le violenze della polizia. È comunque un fatto estremamente positivo che migliaia di persone, soprattutto giovani, protestino contro il razzismo. Non riesco però a valutare se e fino a qual punto siano anche proteste che sommergono la presidenza di Donald Trump e che possano influenzare le prossime elezioni americane. Mi augurerei tanto di sì!

La candidatura di Trump può essere combattuta su due piani: quello politicamente pragmatico in base ai risultati ottenuti nel quadriennio e quello ideale in base ai principi democratici ed ai diritti civili. La destra populista riesce a trionfare nella misura in cui fa prevalere gli interessi della pancia sulle idee del cervello e quindi a buttare all’aria gli schemi politici (destra e sinistra) in nome dell’egoismo e dell’individualismo. Finora a Trump è riuscito questo squallido gioco: ha ottenuto consenso dai deboli illusi di farsi forti nella guerra contro gli altri deboli.

Se ci si riesce a spostare sul piano più elevato delle idealità il meccanismo si inceppa e ci si rende conto che le ingiustizie non si combattono con le guerre fra poveri, ma tentando di rimuovere le discriminazioni verso i poveri. Il razzismo è proprio la prova del nove fatta al populismo e forse sta funzionando come tale, risvegliando la popolazione dal torbido sonno egoista in cui era piombata.

Non c’è da farsi soverchie illusioni: la pancia è sempre pronta a prevalere sul cervello, anche perché sono tanti gli strumenti persuasivi che vengono messi in campo, riconducibili sostanzialmente al discorso del “meglio un uovo oggi che una gallina domani”. Le ingiustizie e le violenze ci saranno sempre, tanto vale dimenticarle e tirare a campare. La criminalizzazione del sistema funziona da deterrente per le battaglie all’interno del sistema. In molte parti del mondo sta funzionando.

Il pontefice ha recentemente parlato con schiettezza del sovranismo, che considera “un atteggiamento di isolamento. Sono preoccupato perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. “Prima noi. Noi… noi…”: sono pensieri che fanno paura. Il sovranismo è chiusura. Un Paese deve essere sovrano, ma non chiuso. La sovranità va difesa, ma vanno protetti e promossi anche i rapporti con gli altri paesi, con la Comunità europea. Il sovranismo è un’esagerazione che finisce male sempre: porta alle guerre”. Lo “stesso discorso” vale anche per i populismi. “All’inizio faticavo a comprenderlo – spiega – perché studiando Teologia ho approfondito il popolarismo, cioè la cultura del popolo: ma una cosa è che il popolo si esprima, un’altra è imporre al popolo l’atteggiamento populista. Il popolo è sovrano (ha un modo di pensare, di esprimersi e di sentire, di valutare), invece i populismi ci portano a sovranismi: quel suffisso, ‘ismi’, non fa mai bene”.

Riuscirà l’ondata di proteste a mettere in discussione il populismo di Trump facendone vedere, fra le tante degenerazioni, quella più drammatica, la degenerazione razzista? Qualcosa si sta muovendo. Il discorso razzista è sempre stato un punto politicamente dirimente: potrebbe tornare ad esserlo.  Al grido di “Black Live Matter” (Le vite dei neri contano) e “I can’t breathe” (Non posso respirare), manifesta tutta America contro il razzismo e le brutalità della polizia. Ovunque, in grandi metropoli e piccole città, va in scena il rito di inginocchiarsi per 8 minuti e 46 secondi, esattamente il tempo durante il quale un poliziotto di Minneapolis ha tenuto il suo ginocchio premuto sul collo di George Floyd uccidendolo.  Per il momento mi godo questo bagno di idealità e aspetto con speranza che le urne americane ne escano pulite dalle scorze accumulate negli ultimi anni.