Non basta la buona fede al ministro Bonafede

Ho seguito in modo parziale e frammentario il dibattito al Senato al termine del quale sono state respinte le due mozioni di sfiducia contro il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, conseguenti, almeno dal punto di vista temporale, ai contrasti emersi  nei rapporti con i vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e con la scopertura di un altarino di vecchia data, ma tornato d’attualità su impulso di un giudice che si era sentito malamente accantonato dal ministro dopo che gli era stata chiesta la disponibilità a dirigere quel delicato ufficio. Sono venuti a galla dubbi e sospetti sui quali ha marciato l’opposizione, sovrapponendo la tentata e strumentale sputtanata finale ad un percorso di errori e manchevolezze del ministro in questione. Vicenda peraltro molto strana, che non si chiarirà mai, che non era conosciuta e che è tornata improvvisamente d’attualità, rovesciando addosso ad Alfonso Bonafede il pesantissimo sospetto di essere stato “sensibile” o non sufficientemente “insensibile” o comunque condizionato o condizionabile da parte di ambienti e da poteri riconducibili alla mafia o giù di lì.

Credo che il ministro non abbia alcun contatto con il mondo malavitoso, ritengo sia un galantuomo, mi sento di affermare, utilizzando un banale gioco di parole, che il ministro Bonafede sia in totale buona fede. Giudico tardiva, esagerata e per certi versi inspiegabile l’iniziativa del giudice Di Matteo, un impeachment sui generis, volto a portare a galla una vicenda molto probabilmente dovuta ad equivoci ed errori procedurali, ma non a marce indietro causate da condizionamenti malavitosi.

Discorso diverso è il giudizio sull’operato complessivo di questo ministro, piuttosto impreparato, obiettivamente confusionario, pressapochista e inconcludente sui gravi problemi che attanagliano da tempo la giustizia nel nostro Paese. Alfonso Bonafede in questo è figlio più che legittimo del movimento cinque stelle e non a caso è stato eletto per acclamazione a capo delegazione pentastellata e guida quindi la pattuglia ministeriale del M5S all’interno del secondo governo Conte: mostra tutta la corda della sua incompetenza e della sua inesperienza. Non basta velleitariamente sventolare alcune bandiere di lotta alla criminalità per fare la battaglia per la giustizia giusta: si finisce infatti per fare del giustizialismo che fa rima con populismo.

Da questo punto di vista il ministro è poco difendibile, infatti lo hanno dovuto nascondere dietro la lavagna dell’intero governo, facendo balenare il rischio che, se fossero passate le mozioni di sfiducia tutto il governo sarebbe andato in crisi con effetti devastanti sull’attuale situazione politica. E Bonafede si è salvato in corner, incassando una “non sfiducia” assai poco onorevole e soddisfacente. La pentola di diffuso e articolato malcontento, che bolle da parecchio tempo sotto il suo mandato ministeriale, è stata spenta per carità di governo, ma è pronta a ricominciare la bollitura alla prima occasione.

Mi chiedo se sia giusto difendere l’azione di un ministro a prescindere dai suoi meriti e dalle sue manchevolezze, ma mi chiedo anche se sia corretto attaccare di petto l’azione di un ministro prendendo spunto da una vicenda tutta da chiarire e circoscritta nell’area dei sospetti. Anche la nobile e brava Emma Bonino si è lasciata coinvolgere in questa vicenda, pur avendo preso spunto e abilmente affondato il colpo nel merito delle questioni irrisolte e/o mal risolte dal ministro in questione (soprattutto e innanzitutto la vergognosa situazione carceraria).

Una breve sottolineatura merita anche il fatto che chi ha sostenuto in passato la linea delle dimissioni in sede politica sulla base anche del semplice sospetto, quando è venuto il suo turno abbia respinto sdegnosamente i sospetti senza rassegnare le dimissioni. Se il giustizialismo non è giusto, ancor meno lo è se applicato in modo fazioso solo agli avversari politici.