Fasciarsi la testa di regole prima di cadere nel virus

Come scrive molto acutamente Mauro Barberis su MicroMega “alla pandemia da coronavirus si è aggiunta l’infodemia, l’epidemia d’informazioni allarmistiche, fuorvianti o semplicemente false. In Italia, alla pandemia e all’infodemia s’è aggiunto un terzo flagello. Potremmo chiamarlo burodemia: l’epidemia di burocrazia”. Non voglio girare il coltello nella piaga, ma soltanto prendere atto che esiste una quarta piaga, che chiamerò “regodemia”, vale a dire l’epidemia o bulimia delle regole a cui dovremo sottostare chissà per quanto tempo.

Alla cosiddetta riapertura siamo costretti a pagare il prezzo di una jungla di prescrizioni. Ancor prima di uscire di casa bisogna indossare mascherina e guanti (non ho ancora capito se sia ancora necessaria la dichiarazione d’intenti) e portarsi dietro un flacone di disinfettante e guanti di riserva. Poi viene il bello: tenere comunque le distanze nei confronti di chi si incontra (quanti metri? Non l’ho ancora capito!), per salire in autobus bisogna porre la massima attenzione a dove si mettono i piedi e le mani, per entrare in un negozio bisogna fare la fila tenendosi a debita distanza dagli altri potenziali avventori, una volta dentro il negozio non so cosa succederà, il gestore ci dirà le regole a seconda dei casi. I guanti nel frattempo si saranno sporcati di virus e quindi sarà bene cambiarli previa disinfezione delle mani. Per accedere a certi locali, negozi o uffici occorrerà la prenotazione per poi, in certi casi, sottoporsi alla prova della febbre e ad altre prove del fuoco.

Mi chiedo: si può vivere in questo modo? Stiamo esagerando? Forse si stava meglio quando ci sembrava di stare male, ossia rintanati in casa senza vedere alcuno. Non invidio chi è al lavoro, in fabbrica, in ufficio, in negozio, in laboratorio: altre regole da osservare scrupolosamente. Persino per andare a messa ci saranno norme precise da rispettare. Ci abitueremo, si fa l’abitudine a tutto. Andare in vacanza sarà un problema serio: mancheranno magari i soldi, ma poi cosa succederà in albergo, in spiaggia, in campeggio? Forse sarà meglio stare a casa. Si potrà accendere il condizionatore? Chissà chi lo sa.

Torna di estrema attualità l’approccio di mio padre alle regole esagerate. Entravamo finalmente in una casa nuova dopo tanti anni di vita in una catapecchia. C’era però il rovescio della medaglia: si trattava di un condominio con ben tredici unità immobiliari, mentre eravamo abituati a vivere con un solo coinquilino, peraltro legato a noi da vecchia e consolidata amicizia. Era il prezzo accettabile da pagare alla conquistata modernità. L’approccio alla vita in condominio fu morbido, all’insegna del battutistico buonumore paterno. Alla prima assemblea condominiale mio padre partecipò con ovvia curiosità mista a tradizionale disponibilità al dialogo e alla collaborazione. Si trovò alle prese con un regolamento rigido al limite del carcerario. Ne fu impressionato, ma non si scoraggiò, affrontò la situazione a modo suo, dando subito l’idea a tutti della propria indole. Tra i vari ed articolati divieti esisteva anche quello inerente agli animali domestici: non si potevano tenere cani, gatti, canarini, etc. La mia famiglia non aveva simili abitudini: eravamo stati purtroppo alle prese solo con i topi, che viaggiavano nell’androne delle scale di una casa piuttosto malsana, attirati oltretutto da un confinante magazzino di farina e che, con la loro immanente e invadente presenza, ossessionavano ogni rientro in casa, soprattutto serale.  Mio padre colse al volo l’occasione e chiese, con piglio provocatorio anche se bonario: «A s’ polol tgnir un can ‘d stòppa chi àn regalè a mè fjóla?». Per chi non ha dimestichezza col dialetto parmigiano, preciso che si trattava di un animaletto di pelouche.

Non so se mio padre avrebbe la stessa verve ironica di fronte al diluvio regolamentare anti-coronavirus. Il divertimento, il riposo, le soddisfazioni per lui erano modeste nelle pretese e consistevano in piccole cose. Ricordo le esclamazioni che uscivano dal bagno di casa quando si immergeva nella vasca piena d’acqua calda: “Mo chi gh’é pu siòr che mi? “. Tutto viaggiava all’insegna della semplicità e della spontaneità: “Bizzògna saväros contintär”. Se tanto mi dà tanto, dovrebbe chiedere: «Par via dal virus, a s’ polol far al bagn o ag vol al parmès dal càp dal guèron?».

Io, che sono molto più incontentabile e pessimista di mio padre, totalmente incapace di sdrammatizzare le situazioni, in questi giorni mi sto chiedendo: vale la pena (non) vivere in queste condizioni? Non è che per non morire di coronavirus finiamo col morire asfissiati dalle regole…Non è che per stare distanziati finiamo col restare isolati…Non è che faremo la fine di quel marito che, per schivare gli improperi e le bastonate della moglie, si rifugia sotto il letto. Al reiterato e autoritario invito della moglie ad uscire dal penoso nascondiglio, egli, con un rigurgito di machismo, risponde: «Mi fagh cme no vôja e stag chi!».