“Il vago avvenir” della coraggiosa Silvia

Silvia Romano nasce a Milano 25 anni fa. Laureata nel febbraio 2018 in una scuola per mediatori linguistici per la sicurezza e la difesa sociale con una tesi sulla tratta di esseri umani, era alla sua seconda missione da volontaria in Africa. Silvia è stata rapita alle 20 di martedì 20 novembre 2018 nel villaggio di Chacama, a circa ottanta chilometri dalla capitale Nairobi, in Kenya ed è stata liberata in Somalia il 9 maggio, dopo 18 mesi di prigionia. Volontaria dell’associazione Africa Milele Onlus, una piccola organizzazione con sede a Fano che si occupa di progetti di sostegno all’infanzia, aveva creato nel villaggio una “Ludoteca nella Savana”. Il progetto principale che l’associazione sta portando avanti è la costruzione di una casa orfanotrofio in grado di ospitare 24 bambini orfani di entrambi i genitori. Appassionata di fitness, Silvia aveva anche lavorato in un paio di palestre a Milano. La 25enne era alla sua seconda missione da volontaria in Africa, sempre nella zona di Malindi, in passato già teatro di attacchi contro stranieri.

Sono volutamente partito dalla storia di Silvia e non dalla cronaca, che la vede libera dopo 18 mesi di prigionia. La sua liberazione suscita grande sollievo anche se pone qualche interrogativo, sulle modalità del rilascio e sulla conversione all’Islam, immediatamente dichiarata dall’interessata con molta franchezza e semplicità. Per quanto concerne il percorso seguito per ottenere la liberazione si deve avere ritegno e rispetto: sono cose che non si fanno e non si ottengono alla luce del sole e quindi, come sosteneva Guglielmo Zucconi, non bisogna pretendere di avere i servizi segreti pubblici. Si sarà sicuramente operato al di fuori della legalità, forse sarà stato pagato un riscatto, forse ci si sarà avvalsi della mediazione di gente senza scrupoli, forse si saranno fatti i salti mortali a livello internazionale e malavitoso: non mi interessa perché, mai come in questi casi, il fine, la salvezza di una persona, giustifica i mezzi.

Ho voluto riferirmi alle scelte di vita di Silvia Romano: a quanto è dato capire non era una irresponsabile kamikaze del volontariato terzomondiale. Aveva fatto scelte di vita coraggiose e ammirevoli che, come sempre accade, sono state pagate a caro prezzo. È rimasta vittima del terrorismo. Ora emerge un eventuale certo pressapochismo a livello della onlus in cui era inserita: forse era stata mandata allo sbaraglio e lasciata sola. Cose difficili da stabilire, perché è nella natura stessa di queste organizzazioni una spinta coraggiosa al limite della irresponsabilità. Non si può pretendere di operare nella massima sicurezza in ambienti caratterizzati da disordine, ingiustizia, sfruttamento e chi più ne ha più ne metta. Se uno non vuol rischiare se ne sta a casa, allineato e coperto, salvo morire in Italia di coronavirus.

La sua conversione suscita dubbi e perplessità: non è il caso di perdersi nei meandri delle analisi psicologiche e di ipotizzare forzature e violenze subite. Non mi sento di esprimere giudizi e valutazioni: Silvia Romano avrà tempo e modo di verificare le sue scelte religiose comunque rispettabili.

Mi sembra che da tutta la vicenda, che non è una favola anche se per certi versi può assomigliarle, si possa ricavare una morale: agire per il bene altrui è molto difficile e rischioso, non si tratta di fare passeggiate benefiche. Certo, il bene, come diceva l’ex vescovo di Parma, Benito Cocchi, oltre che volere farlo, bisogna essere capaci di farlo. Discorso molto delicato e, per certi versi, paralizzante. Meglio sbagliare a fin di bene, che non sbagliare non facendo niente. La conquista della propria libertà si dovrebbe basare eticamente proprio sulla spontanea decisione di dedicarsi agli altri: meglio semmai scivolare dopo piuttosto che prima ancora di partire. Sono scivolate cruente, che peraltro coinvolgono direttamente o indirettamente il contesto sociale di provenienza. Però meglio soffrire per liberare una volontaria in prima linea, che soffrire per l’egoismo di chi sta nelle retrovie.