L’occasione fa la giustizia debole

Di Matteo contro Bonafede. L’ex pm antimafia di Palermo ora al Csm contro il ministro della Giustizia. Non in una sede istituzionale. Ma in una trasmissione televisiva. Poco prima di mezzanotte a Non è l’arena di Massimo Giletti. Tema: il posto di capo del Dipartimento delle carceri. Questo incarico è tornato d’attualità dopo le dimissioni di Francesco Basentini a motivo delle polemiche sulle scarcerazioni dei boss mafiosi per l’emergenza coronavirus e la successiva nomina a questa funzione del già procuratore generale di Reggio Calabria, Dino Petralia da parte del ministro della Giustizia competente in materia. Una faccenda piuttosto delicata e obiettivamente poco chiara a cui si è aggiunta una polemica devastante innescata da un altro importante giudice, che in merito ha rivangato una precedente vicenda.

In sintesi: Nino Di Matteo, ex pm antimafia di Palermo e ora membro del Consiglio Superiore della Magistratura, accusa il ministro Alfonso Bonafede di avergli prima proposto, nel 2018, quindi nel governo Lega-M5S, di fare il capo delle carceri. Ma dopo due giorni avrebbe fatto marcia indietro. La voce corre. La polizia penitenziaria registra la reazione di importanti boss che tra di loro in cella dicono “se arriva questo abbiamo chiuso”, “faremo ammuina”. Le telefonate diventano pubbliche con un articolo del Fatto quotidiano.

Di Matteo afferma adesso di essere tornato da Bonafede per accettare il posto al Dap, ma a quel punto il Guardasigilli gli avrebbe detto di aver scelto Francesco Basentini, mentre per lui era disponibile la poltrona di direttore degli Affari penali. Dopo la telefonata di Di Matteo ecco quella di Bonafede che si dichiara “esterrefatto” e propone una versione del tutto opposta nella ricostruzione della proposta e dei tempi. Avrebbe ipotizzato subito con Di Matteo le due soluzioni, la direzione del Dap o quella degli Affari penali, dicendogli però di preferire la seconda strada, perché quello era il posto che fu di Giovanni Falcone ed era più importante nella lotta contro la mafia.

Dopo neppure dieci minuti, da poco passata la mezzanotte, ecco la prima reazione, quella dell’ex magistrato Cosimo Maria Ferri, adesso deputato renziano, ma anche ex sottosegretario alla Giustizia, che dice “ma dov’è finita la sua trasparenza? perché Bonafede non lo ha mai raccontato? ora venga in Parlamento a dire cosa è successo”. A ruota si preannuncia la tempesta leghista con l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone che già parla di aprire il caso in Parlamento. È scoppiato un autentico pandemonio politico.

Evidentemente il giudice Di Matteo ha colto l’occasione per togliersi un grosso sasso dalla scarpa, gettando un sinistro lampo di luce sul ministro Bonafede, accusato indirettamente di essere stato, come minimo, poco coraggioso, di fronte alle reazioni mafiose.  Il ministro messo tardivamente, improvvisamente e sbrigativamente sotto accusa, si difende con un certo e peraltro comprensibile imbarazzo istituzionale, procedurale e personale. Una cosa è sicura: non si gestiscono così i rapporti tra politica e magistratura. Se il giudice Nino Di Matteo aveva da eccepire cose così gravi, lo doveva fare nei tempi dovuti e con modalità ben diverse: non con dichiarazioni sparate alla viva il Parroco ed a distanza di tempo. Non è ammesso agire con tale pressapochismo da cortile.

Il ministro chiarisca per filo e per segno il suo comportamento senza timore di andare davanti al Parlamento per difendere la propria immagine e il proprio operato; il Consiglio Superiore della Magistratura esamini il caso e prenda le opportune posizioni e gli eventuali opportuni provvedimenti. In piena bagarre coronavirus non ci voleva anche questa grana, su cui si stanno buttando scriteriatamente un po’ tutti.

Troppo protagonismo della magistratura, come si sta verificando da tanto tempo, non fa bene alla giustizia: un conto è il coraggio della propria azione, un conto sono gli esibizionismi inutili e rischiosi. Il rapporto con la politica è estremamente difficile e delicato, ma proprio per questo non va impostato con velenosi attacchi al di fuori dei percorsi istituzionali e, forse, persino strumentalizzando le inchieste. La politica, dal canto suo, deve essere più chiara, trasparente e competente al di fuori della stucchevole contrapposizione fra garantismo e giustizialismo; deve smetterla di blandire o attaccare i giudici ed assumersi interamente le proprie responsabilità.  Ognuno faccia il proprio mestiere e, se esistono contrasti, si portino e si risolvano di fronte agli organi competenti e non nelle trasmissioni televisive.

Il coronavirus non finisce mai di stupire: sta mettendo a nudo tutta la criticità del nostro sistema, non si fa mancare niente, va a toccare persino i rapporti tra politica e magistratura. Non vorrei che alle migliaia di morti senza dignitose esequie si aggiungesse il funerale alla giustizia ed alle sue istituzioni. Sarebbe l’ennesimo e gravissimo guaio. Facciano tutti un passo indietro, entrino in un doveroso lock down in attesa che chi di dovere faccia chiarezza, la qual osa non vuol dire mettere un politico confusionario alla gogna o santificare subito una toga comunque troppo loquace.