L’Italia una e trina

I dati dell’Istat certificano la realtà di un Paese segnato molto diversamente dal passaggio del Covid 19: in 36 province il dato è raddoppiato e mentre al Nord i numeri sono tragici, in 34 province del Centro-Sud la mortalità è calata in media dell’1,8%.

In diverse aree d’Italia, quelle meno colpite dal virus (in larga prevalenza al Centrosud) nel marzo 2020 si registrano addirittura meno morti rispetto alla media degli anni scorsi: nel complesso, si legge nel report Istat/Iss sull’impatto del Covid-19 sulla mortalità, nelle aree a bassa diffusione (1.817 comuni, 34 province per lo più del Centro e del Mezzogiorno) i decessi del mese di marzo 2020 sono mediamente inferiori dell’1,8% alla media del quinquennio precedente. A spiccare è il dato di Roma, che a marzo fa segnare un -9,4% rispetto alla mortalità media degli ultimi 5 anni: 3.757 morti quest’anno, 4.121 in media. Giù anche Napoli, che registra un -0,9% di mortalità.

Per “leggere correttamente” i dati sui decessi dopo il coronavirus – secondo l’Istat – bisognerebbe parlare di “tre Italie”. “La diffusione geografica dell’epidemia di Covid-19 è eterogenea”, si legge nel report. “Nelle Regioni del Sud e nelle isole, la diffusione delle infezioni è stata molto contenuta, in quelle del Centro, è stata mediamente più elevata rispetto al Mezzogiorno mentre in quelle del Nord la circolazione del virus è stata molto elevata. Secondo il rapporto Istat a cui sto facendo riferimento, a marzo la mortalità è aumentata del 49,4%, ma il virus lascia un’Italia spaccata: Bergamo +568%, Roma -9,4%.

Chi vuole può sbizzarrirsi con i dati esposti anche in modo più articolato e interessante. La statistica non mi ha mai interessato più di tanto, ma con essa bisogna pur farci i conti. Emerge una netta spaccatura in tre Italie. Non è una novità, ma è piuttosto inquietante vederne il collegamento con l’epidemia per farsi una domanda: perché dove la società è più avanzata, più strutturata, più evoluta e, in fin dei conti, più ricca, una tremenda malattia attecchisce molto di più? D’acchito e da tempo mi sono dato una banale risposta: dove la società è più viva esiste una maggiore quantità di rapporti e quindi una maggiore possibilità di infezione e contagio. Risposta esauriente e convincente? Fino a mezzogiorno.

Se il benessere impostato e perseguito “alla lombarda”, ma si potrebbe dire anche all’emiliana, paga prezzi così alti di fronte a certe emergenze, probabilmente c’è qualcosa che tocca. Non voglio ideologizzare e, tanto meno, politicizzare il discorso, ma davanti a questi dati inquietanti occorrerà farsi qualche ulteriore domanda e abbozzare qualche grezza risposta, tutta da approfondire. Stiamo perseguendo un obiettivo di società molto contraddittorio: il progresso economico che abbatte le difese immunitarie verso i disastri sanitari ed ecologici. Al centro del nostro progresso non ci sono l’uomo e la natura, ma i soldi e il godimento. Non sappiamo difenderci né prima, né durante né dopo le emergenze. Alle spaccature territoriali, si aggiungono quelle sociali e finanche quelle generazionali.

Non sono né un pauperista, né un cretino ecologico, né un ambientalista della domenica, né un menagramo della salute pubblica. Non sono però nemmeno uno che pensa alla nostra società come la migliore possibile e immaginabile. Se il discorso, per dirla con Churchill, può essere applicato al sistema democratico, non mi sentirei di allargarlo acriticamente a quello capitalistico. È curioso che il coronavirus abbia attecchito nelle due società agli estremi (che si toccano) della concezione socio-economica e soprattutto politica, la Cina e gli Usa. Trump si difende alla sua maniera con la dietrologia anti-comunista. I cinesi si sono difesi con la gestione autoritaria dell’emergenza. E l’Italia è coinvolta alla grande.  Perché così tanto e in modo così scombinato? Proviamo a pensarci sopra.