Redistribuzione (di)sperata

Il coronavirus ha sconvolto la nostra società?! Non sono d’accordo. Ha messo in crisi il nostro modo di vivere, questo sì. Quanto alla società ne ha solo brutalmente e inappellabilmente scoperto gli altarini. Ha portato cioè allo scoperto tutti i difetti ed i limiti del nostro sistema mettendone a nudo carenze e contraddizioni.

In questi giorni si fa un gran parlare degli ostacoli burocratici frapposti alla concretizzazione delle misure di sostegno all’economia di famiglie e imprese. Niente di nuovo, si tratta di un male storico e cronico della nostra società. La sanità ha mostrato la corda, il sistema non ha retto e probabilmente, se non fosse stato per il senso di responsabilità e la dedizione degli operatori, avremmo assistito ad un vero e proprio crollo verticale delle strutture sanitarie. Nel momento in cui si ipotizza una riattivazione dei processi produttivi ed emerge la necessità di trovare una organizzazione del lavoro che dia una certa sicurezza, scopriamo che di sicurezza sono piene le leggi, le scartoffie, le procedure, ma la gente muore sul lavoro come se niente fosse e questo avveniva ben prima del coronavirus. Non ci sono prove scientifiche, ma certamente l’inquinamento, i disastri ecologici, gli squilibri del cosiddetto ecosistema hanno costituito terreno fertile per il proliferare del virus. Sacche di miseria sono presenti e costituiscono un carattere distintivo del nostro finto benessere basato sull’inequità e sull’egoismo: basti pensare a come sono distribuite le ricchezze. Certamente il post-coronavirus accentuerà ulteriormente le disparità, allargando la fascia di chi “vive male” e restringendo quella di chi “vive bene”.

La debolezza della politica e della classe politica sono drammaticamente evidenziate dall’emergenza: da tempo si sapeva che la politica e le forze intermedie erano inadeguate rispetto ai problemi, il coronavirus ha messo il dito nella piaga. Anche le disfunzioni istituzionali sono state colpite da una luce sinistra: il conflitto stato-regioni, il difficile rapporto governo-parlamento, il problematico connubio fra politica e scienza. Sono tutti gravi sintomi di una confusione istituzionale deleteria.

Mi sono limitato ad elencare le più evidenti storture del nostro sistema riconducibili ad una impostazione da rivedere dalle e nelle fondamenta. Mio padre, amante dei proverbi e dei modi di dire, riusciva anche in questo campo a mettere il proprio grano di sale. Era solito citare due proverbi: “chi fa da sè fa per tre” e “l’unione fa la forza”. Aggiungeva: “E alóra cme s’à da far”. Oggi diciamo “nulla sarà più come prima” e poi scriviamo dappertutto che “andrà tutto bene”. C’è del paradosso in questo modo superficiale di reagire all’emergenza.

Sono convinto che un processo di cambiamento si imponga: qualcuno parla di “decrescita felice”, qualcun altro di “redistribuzione disperata”. Di fronte a questa prospettiva mi pongo due angoscianti problemi riguardanti i tempi e i modi del rinnovamento e il merito dello stesso. Sui contenuti ho alcune fortissime perplessità, che costituiscono una devastante contraddizione: i settori economici, sui quali occorrerebbe puntare per una “sanificazione” economica, per lo “sviluppo” dell’occupazione oltre che per la crescita umana, sono il turismo, l’arte e la cultura, tre discorsi fortemente interconnessi ed interdipendenti. Si tratterebbe cioè di rifare la scala dei beni da produrre, privilegiando quelli ambientali, artistici e culturali. Qui viene il difficile al limite dell’impossibile: si tratta dei tre settori drasticamente appiedati dal coronavirus e per i quali non si intravede una seppur parziale ripartenza.

Il turismo è letteralmente azzerato e non è dato sapere se e come potrà riprendere vigore. Se la gente non gira, non viaggia, non si muove disinvoltamente, come potranno rianimarsi i musei, le mostre, i monumenti e tutto il patrimonio artistico in genere? Se i teatri e le sedi che ospitano spettacoli di ogni genere culturale non riaprono e, cosa ancor più difficile, le orchestre, i cori, i palcoscenici, i gruppi teatrali e musicali restano imprigionati nel distanziamento sociale, come si potrà animare la società e renderla attenta e accogliente verso la “nouvelle vague” post coronavirus? E le scuole e le università quando e come riapriranno al di là della irritante faciloneria informatica?

E poi, il profondo processo di rinnovamento che tempi potrà avere? Bisognerà imporre enormi sacrifici a cui non corrisponderanno immediati benefici. Bisognerà pur vivere in attesa che molte cose cambino, le resistenze saranno fortissime, i conflitti pure. C’è da farsi venire il mal di testa e di cuore. I discorsi sono tutti aperti. Chi avrà il carisma e l’autorevolezza per guidare la macchina verso un mondo nuovo? Vedo due emblematici personaggi: entrambi hanno in questi giorni solitariamente e malinconicamente percorso una scalinata. Papa Francesco a piazza san Pietro la sera del venerdì santo e ancor prima la sera della preghiera per il mondo intero; Sergio Mattarella all’altare della Patria il 25 aprile, festa della liberazione. Erano soli, ma avevano dietro molta gente. La strada è in salita, ma se c’è qualcuno, che sa il fatto suo, a fare da apripista, tutto diventa possibile, anche se molto difficile.