Il mondo in contropiede

La cosiddetta ripartenza in clima di coronavirus viaggia sul filo del rasoio della omogeneità nazionale dei tempi e dei modi: il rischio è che ci scappi una confusione tale da indispettire e spingere tutti ad una sorta di ribellismo per sopravvivere. Dobbiamo essere seri e affrontare la realtà. Mi sembra patetico ipotizzare le spiagge con gli ombrelloni a distanza di sicurezza (?), il bagno in acqua contingentato, la turnazione delle passeggiate sul bagnasciuga, i bagnini che multano i bagnanti se mettono un piede fuori del recinto, le chiacchiere sotto l’ombrellone col megafono, il divieto dei castelli di sabbia e di tutti i giochi nella sabbia e in acqua. Meglio starsene a casa ed immergersi nella vasca da bagno o infilarsi sotto la doccia, prendendo la tintarella sul terrazzo o sul balcone (se rigorosamente individuali).

È solo un esempio, se ne potrebbero fare molti altri, ma è opportuno lasciare perdere per non scoraggiarsi ulteriormente. Meglio ripiegare pregiudizialmente su un discorso di fondo che molti fanno più sulle ali dell’etica e della poesia che dell’effettiva attuabilità. Mi riferisco al discorso del “non più come prima”, che mi trova teoricamente d’accordo, ma praticamente piuttosto perplesso e preoccupato. Ci sono mille ragioni per giudicare male il mondo costruito fino ad oggi: le ingiustizie, le contraddizioni, i controsensi si sprecano anche se ci siamo abituati a convivere con essi. L’occasione quindi dovrebbe essere validamente sfruttata per reimpostare fin dalle fondamenta un mondo migliore.

Se tornare indietro risulta velleitario e impossibile, cambiare tutto risulta estremamente sacrificale in termini personali, economici, sociali e culturali. A parte i tempi lunghi che occorrerebbero, bisogna mettere in conto sacrifici enormi per una riconversione globale, ammesso e non concesso che tutti i protagonisti siano d’accordo nell’intraprendere questa strada. Andatelo a dire a Donald Trump a cui preme soltanto la rielezione del prossimo autunno. Provate a parlarne al G8, opportunamente allargato alla Cina, e troverete d’accordo quasi tutti nel ripristino dello status quo ante-coronavirus. Un discorso rivoluzionario sistemico deve fare i conti con una sfasatura temporale pazzesca, nel senso che mentre i sacrifici sarebbero immediati e consistenti, i benefici sarebbero molto dilatati nel tempo, difficilmente quantificabili e distribuibili in modo paradossalmente diverso.

Mi sembra quindi che la prospettiva di un cambio radicale sia al momento una invitante esercitazione sociologica ed una profonda revisione di vita etico-culturale a livello personale. Bisognerà accontentarsi di andare avanti volando basso senza pretendere di tornare indietro. Mi sovviene la barzelletta del comiziante di turno in vena di promesse eccezionali: lavorerete un mese all’anno! E le ferie? chiede un esigente ascoltatore. Capirete cosa succederebbe se si dovesse prospettare di lavorare tutti di più, guadagnando meno in attesa di un nuovo lavoro per tutti riorientato non sul mercato ma sulla difesa del creato.

Non voglio fare del disfattismo, ma lo sforzo, che può diventare ideologico, di cambiare tutto rischia di finire gattopardescamente nel non cambiare nulla. Recepisco certi discorsi come utili e sane provocazioni alle quali però si deve corrispondere realisticamente e seriamente, alla maniera di papa Francesco: “Non pensiamo ai nostri interessi, agli interessi di parte, prepariamo il domani di tutti, senza saltare nessuno, senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno”.

Nel calcio si definisce ripartenza quel che un tempo si chiamava contropiede: mi piaceva di più la vecchia definizione perché meno enfatica e più pragmatica. Siamo drammaticamente in svantaggio e di parecchi gol: cerchiamo di prendere in contropiede la situazione evitando la confusa melina delle finte ripartenze e la salottiera illusione del no contest con partita da rifare daccapo.