Convivere o “conmorire” col virus

Quando entrò in vigore la riforma regionale, dopo quasi trent’anni dal varo della Costituzione che la prevedeva, v’era chi temeva che le potenziali regioni a maggioranza comunista potessero mettere a soqquadro la nostra democrazia. Rispose in modo ironicamente sdrammatizzante Francesco De Martino, allora segretario del Psi, che ridicolizzò le paure destrorse con l’ipotesi della rivoluzione tosco-emiliana fatta con l’esercito dei vigili urbani.

Il vero problema non era di carattere politico, ma di prospettiva istituzionale: l’autonomia regionale, se da una parte avrebbe potuto e dovuto rendere più efficiente e più partecipata la macchina pubblica, dall’altra parte esisteva il rischio di conflitti di potere, di confusione legislative e governativa, di crepe nella unità nazionale. La mancanza di chiarezza nell’assegnazione dei poteri, certe strumentali accelerazioni sui poteri delegati, certe spinte autonomistiche eccessive conseguenti ad un malcelato istinto accentratore e viceversa, hanno creato un quadro istituzionale abbastanza pericoloso e difficile da gestire al meglio.

Il coronavirus non sta solo creando problemi nuovi e drammatici, sta anche scoprendo gli altarini preesistenti e imbarazzanti: strada facendo stanno emergendo sempre più gli scombinamenti fra governo centrale e periferico. Il protagonismo regionale non ha niente a che spartire con un effettivo e serio esercizio dei propri poteri, così come l’esibizionismo centrale non riesce a contenere le smanie indipendentiste. Al riguardo assistiamo tutti i giorni ad uno spettacolo poco edificante: alcune regioni sulle ali del principio che col virus bisogna imparare a convivere rischiano di portarci a “conmorire” con esso; le regioni del sud temono che la fine di certe limitazioni possa comportare una movimentazione di persone tale da mettere a repentaglio le zone fino ad ora meno colpite; nel tempo si continuano a verificare giri di valzer tra prudenza e coraggio, anche se tutti chiamano in causa la scienza e la tecnica a supporto dei loro ragionamenti e delle loro indicazioni programmatiche.

Il governatore campano Vincenzo De Luca, con la sua solita e per certi versi simpatica verve, è passato dal lanciafiamme minacciato per le feste di laurea alla difesa oltranzistica dei confini regionali contro le “invasioni barbariche” del nord. C’era un tempo al nord Italia chi voleva alzare una barriera verso il sud per evitare immigrazione e succhiamento di ruote nordiste, ora il discorso si è ribaltato: un tempo si trattava, per dirla brutalmente, dei ricchi che non volevano i poveri, ora si tratta dei poveri che rifiutano i ricchi. Parola di coronavirus.

La partita, al di là delle uscite colorite di Tizio o Caio, si sta facendo delicata e tale da richiedere un forte impegno istituzionale per uscire da una situazione paradossalmente confusa e contraddittoria. Il governo centrale è in difficoltà. Mi sembra che possa essere (quasi) indispensabile un autorevole intervento del presidente della Repubblica nella sua funzione di garante dell’unità nazionale. Non è giusto che sia Mattarella a cavare le castagne dal fuoco incrociato dei vari Conte, Fontana, Zaia, De Luca, Emiliano e c. Tuttavia se lor signori continuano in questa penosa menata autonomistica e propagandistica, occorrerà pure che qualcuno li fermi e li riduca alla ragione, prima che sia troppo tardi. Errare è umano, perseverare è diabolico, scherzare è mortale. Si muore purtroppo di coronavirus, cerchiamo almeno di non morire di casino interregionale.