Vestivamo alla pallonara

Prima o poi doveva arrivare ed è arrivato il redde rationem del calcio professionistico, che vive ben al di sopra delle proprie possibilità in un mercato economicamente fasullo, a metà strada fra sport e industria dello spettacolo, sempre meno sport e sempre più industria, sempre meno industria e sempre più show room pedatorio “sgolosato” dai tifosi senza dignità, sempre meno competizione e sempre più carrozzone per i mangiapane a tradimento. È arrivata la falce a imporre una inderogabile cura dimagrante.

I calciatori si sono sentiti toccati nel vivo di un portafogli stragonfio, che sta per esplodere: purtroppo il discorso non vale per tutti. Siamo abituati a generalizzare i super ingaggi dimenticando i tanti calciatori che guadagnano molto meno rispetto alle star del pallone. È sempre così: davanti all’ingiustizia clamorosa e insostenibile si rischia di fare giustizia sommaria. Non ci si può tarare sui Ronaldo, ma si deve comunque bonificare un mercato dell’assurdo.

Mi sono da tempo chiesto perché i presidenti delle società calcistiche non abbiano tentato un tacito accordo di gruppo per calmierare il mercato degli ingaggi: forse sarebbe stata una sacrosanta manovra in barba alle regole della concorrenza, ma un taglio benefico si imponeva da tempo.  A latere c’era da regolamentare anche il pazzesco mercato dei diritti televisivi e pubblicitari: una jungla in cui spartirsi il bottino costituito dalla malata passione sportiva degli aficionados del pallone. Si parlava da tempo di una ristrutturazione su scala europea dei campionati a due velocità: il calcio dei ricchi collocato sul piedistallo internazionale e quello dei poveri relegato in ambito nazionale. A margine c’è la pletora mediatica ed autoreferenziale del giornalismo pallonaro: come si ricollocheranno le infinite schiere di commentatori del piffero? Andranno a fare i facchini o troveranno la maniera di riciclarsi? Si è aperta una fase critica con la prospettiva di un cinico ma necessario disboscamento.

Sempre meno gente andrà allo stadio, diventato mero sfogatoio degli irriducibili ultras. Anche le partite sulle televisioni a pagamento finiranno col venire a noia. Il mercato pubblicitario soffrirà, le sponsorizzazioni caleranno. Minori entrate, minori spese. Prima del coronavirus si pensava di coprire i deficit, oltre che con i trucchi di bilancio, studiando una nuova dimensione socio-economica degli stadi: oggi questa prospettiva sembra a dir poco velleitaria con le vacche magre che si intravedono all’orizzonte.

Al punto in cui siamo arrivati si capisce l’imbarazzo dei calciatori trattati come capro espiatorio (sarà durissima per loro scuotersi di dosso l’immagine di soggetti privilegiati e superpagati), ma non si vede alternativa ad un drastico ridimensionamento dei loro guadagni (non sarà facile tagliare con equità). Sarebbe un fenomeno curioso se nel post-coronavirus soffrissero tutti meno i protagonisti del mondo del calcio. Il pallone ha sempre avuto un effetto magico distrattivo dalle vicende della società, non penso fino a questo punto. Cosa ne direste di una cassa integrazione per i calciatori finanziata dai sacrifici degli ultras delle curve? In questo pazzo, pazzo mondo tutto è possibile! Ci dovremo rassegnare ad un unico cronista che ci commenterà la partita in radio. Sarà bellissimo e socialmente utile. Tutti gabbati, o meglio tutti liberati dalla sindrome pallonara di Stoccolma.