In questi giorni, senza voler peccare di integralismo cattolico (chi mi conosce sa che non è nelle mie corde), è sotto gli occhi di tutti come la personificazione dell’antidoto al coronavirus risieda in papa Francesco, nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi atti, nelle sue preghiere. Lo dico subito, chi teme di contaminarsi, oltre che col coronavirus anche con la religione, interrompa pure la lettura di queste povere righe, perché sto per aprire i rubinetti della poca fede a cui tento disperatamente di fare riferimento in mezzo alla tempesta, senza intravedere nemmeno in lontananza che “il sereno rompe là da ponente, alla montagna”.
Un caro amico mi ha chiesto un commento alla preghiera universale papale davanti al mondo presente-assente nel silenzio di piazza San Pietro. Ci siamo scambiati rapide impressioni e abbiamo concluso con una espressione, che potrebbe sembrare addirittura blasfema: “provocazione a Dio”. Sì, con la sua umile autorevolezza, con il suo nascosto carisma, con il suo cuore così umano, con la sua fede così orizzontale, si è messo in gioco, chiedendo a Dio quello che gli apostoli chiesero a Gesù sulla barca che stava affondando: “Signore, non ti importa che moriamo?”; mettendoci la faccia quale vicario di Cristo; tentando di costruire rapidamente e coraggiosamente un ponte fra cielo e terra. In quella preghiera c’era tutta la realtà e la storia della Chiesa: la parola evangelica, la devozione verso i simboli e le icone, la forza dei sacramenti, la nostalgica osservanza dei riti, la preghiera formulata in latino (tradizione) e italiano (concilio), l’adorazione tradizionale al Santissimo Sacramento, il perdono e la benedizione di tutto e di tutti, la lontananza dalla eclatante cattiveria del mondo, la vicinanza alla nascosta carità degli uomini credenti e non credenti, la condivisione del dolore e la prospettazione della salvezza.
La mattina dopo, quasi a chiedere perdono a Dio ed agli uomini, per questa sfida orante e supplichevole, quasi a chiarire che la sera precedente non aveva voluto esagerare con atteggiamenti di stampo religioso, ha fatto l’elogio dell’anticlericalismo, autoproponendosi ed autoproclamandosi non capo inflessibile e forte di una Chiesa infallibile nella sua dottrina e nel suo “libro”, ma pastore dolce e debole di un gregge sempre più allo sbando ed alla ricerca della vita vera.
La domenica immediatamente successiva ha sottolineato il pianto sincero di Gesù davanti al dolore umano quale unica, paradossale ed efficace risposta divina al grido sofferente dei suoi figli: la domenica del pianto, con la chiara allusione alla situazione tragica che stiamo vivendo, con la paura che cresce, con le difficoltà che si stanno concretizzando, col dramma di chi assiste in lontananza alla morte altrui, con la battaglia a mani nude di chi prova a difendere la vita. Con quel pianto e il successivo grido di battaglia (Lazzaro vieni fuori!) Gesù compie la risurrezione dei cuori, dopo aver tolto dall’animo umano la pietra tombale dell’egoismo, che lo chiude nella morte. Dulcis in fundo, in coda all’Angelus domenicale, il solito delicato invito a pregare per lui, accompagnato questa volta da un rassicurante “io prego per voi”.
Scrivendo ad una cara amica ho recentemente confessato il mio crescente senso di solitudine: io sono fatto così, non riesco ad alleggerire la tensione, prendo tutto sul serio, con ansia al limite dell’angoscia. Non riesco a cambiarmi e quindi spero solo di reggere con l’aiuto di Dio e l’amorevole pazienza di chi, nonostante il mio egoismo, mi vuole bene. Faccio fatica a leggere, perché il pensiero va sempre nella stessa direzione; mi sfogo a scrivere e insisto a pregare. Cerco di vedere poco la televisione e di navigare poco su internet: tutto infatti è coronavirus, visto peraltro con accanimento informativo. Arriva qualche telefonata dai cugini e dagli amici, che serve a costringermi a parlare, a sentirmi vivo. Fitto e importante è il mio rapporto pressoché quotidiano con un meraviglioso cugino/fratello. Quanti ricordi, quanti scambi di idee ed esperienze, quanta comunanza di valori, quanta solidarietà!
Allora, caro papa Francesco, mi aggrappo a te, mi attacco alla tua forte fragilità, alla tua calda umanità, alla tua rassicurante fede, alla tua attenzione ai poveri, alla tua impostazione esistenziale ed ecclesiale; vicino a te mi sento più sicuro. Non hai la presunzione di avere la verità in tasca: hai fatto riferimento all’appello del segretario generale delle Nazioni Unite per chiedere la fine di ogni e qualsiasi focolaio di guerra. Più laico di così, più anticlericale di così, più universalmente umano di così (anche in questo momento non ti accontenti, come noi, di esorcizzare il coronavirus, pensi agli immigrati, alle vittime delle guerre, alle case di riposo, alle caserme, alle carceri), più buono di così (chiedi a Dio il perdono per tutti). Se il Padre eterno non ascolta te, siamo veramente perduti. Ma tu non sei il vicario di Cristo? E allora, un briciolo di fiducia e di speranza possiamo averla. E se ti sei fatto sentire in alto loco, hai fatto benissimo: “Signore, non ti importa che moriamo?”. Anche Giobbe si spazientì: “Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo?”. Anche Gesù sulla croce si sentì solo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Quindi…