La drammatica difficoltà del buon samaritano

Oggi il commento ai fatti del giorno si mescola alla riflessione religiosa in un mix drammatico e angosciante. Ho letto quanto scrive Enzo Bianchi davanti alla paralisi ecclesiale conseguente alle disposizioni comportamentali per arginare il dilagante virus. Da una parte l’obbligo civile di rispettare le regole imposte dalle autorità per il bene comune, dall’altra l’imperativo di continuare ad essere, come comunità cristiana, vicini ai fratelli che soffrono e muoiono.

È angosciante pensare ai malati confinati, nella migliore delle ipotesi, nel proprio appartamento o addirittura in una stanza della propria abitazione, ben peggio in una camera ospedaliera, o peggio ancora in un letto di un reparto di terapia intensiva o peggio ancora in una solitaria agonia. La solitudine è rotta dalla presenza dell’eroico personale ospedaliero, costretto ad un lavoro massacrante, a rischiare la pelle per aiutare i malati, a vederli morire, a fare scelte terapeutiche probabilmente drammatiche e paradossali.

L’isolamento riguarda e paralizza i rapporti umani con i propri famigliari, con i propri amici ed anche con la comunità cristiana di appartenenza. Quanti fratelli e quante sorelle sono morti e stanno morendo senza nemmeno “un cane che gli lecchi le ferite”, ancor più soli del povero Lazzaro, senza il conforto delle persone amate, senza il viatico sacramentale, senza un sacerdote che li assolva dai peccati, senza qualcuno che li accompagni nell’ultimo viaggio, persino senza un rito esequiale dopo la morte. Ho pensato a questo e ne sono rimasto letteralmente sconvolto. È il più brutto aspetto di questa tremenda epidemia.

Il paradosso è che la società civile riesce a fare qualcosa tramite le sue strutture pur insufficienti e i suoi operatori pur limitati, mentre la comunità cristiana, la Chiesa, rischia di “pregare in casa”, ma di non aiutare chi è nell’estremo bisogno. Paradossalmente è costretta (?) ad una nuova modalità da buon (?) samaritano: stare dall’altra parte della strada, guardare in lontananza, impietosirsi, pregare, ma non accostare, non soccorrere, non farsi carico.

Sinceramente non so se sia richiesto, ai pastori, cioè ai sacerdoti, e ai cristiani che si professano tali, di essere eroicamente a fianco di chi muore a costo di violare i protocolli sanitari e fino al punto di mettere a rischio la propria e l’altrui vita. Certo, Gesù toccava i lebbrosi e li guariva toccandoli e non in lontananza. Forse al mistero della sofferenza si sta sovrapponendo il mistero della carità verso i sofferenti.

Papa Francesco mai come in questo momento è punto di riferimento, capace di esprimere tenerezza e sensibilità umana accompagnata da una limpida visione evangelica: guardando a lui ci sentiamo tutti meno soli, in lui scorgiamo la vicinanza di Dio, la sua presenza orante ai piedi del crocifisso ci rende più sicuri e fiduciosi. Lui ha usato il termine “fantasia” e ha lasciato intendere la necessità del “coraggio”, per invitare i pastori e le loro comunità a non rassegnarsi all’isolamento: diversi stupendi esempi stanno emergendo anche nelle aree più a rischio. Forse è la fine ingloriosa della Chiesa tradizionale e dogmatica ed è l’inizio speranzoso di quella ruspante e calda, che dalle frontiere potrà contaminare e riscaldare il freddo centro istituzionale e gerarchico.