Il muro di Washington

Il muro di Berlino fu considerato il simbolo concreto della cosiddetta cortina di ferro, ovvero l’immaginaria linea di confine tra le zone europee filo-occidentali, controllate militarmente dalla NATO e politicamente da Francia, Regno Unito e Stati Uniti, e quelle filo-sovietiche del Patto di Varsavia dell’Europa orientale, questo specialmente durante i circa quattro decenni della cosiddetta “guerra fredda”. Il suo crollo fu salutato, forse con eccessivo entusiasmo, come la vittoria definitiva della democrazia liberale.

Nel 2020 si svolgeranno le elezioni presidenziali negli Usa: sono già in atto le primarie dei partiti, repubblicano e democratico, propedeutiche alla corsa verso la Casa Bianca. Mentre in campo repubblicano è scontata la sciagurata ripresentazione di Donald Trump, in campo democratico si profila una situazione a dir poco ingarbugliata e, per certi versi, imbarazzante. I candidati sono sostanzialmente tre, con l’aggiunta di un outsider di gran lusso: eccoli di seguito.

Elizabeth Ann Warren, nata Herring, è una giurista, accademica e politica statunitense, attuale senatrice degli Stati Uniti per il Massachusetts.

Joseph Robinette Biden, Jr., detto Joe, è un politico di vecchio corso, vicepresidente degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Obama dal 2009 al 2017.

Bernard Sanders, detto Bernie, è un politico statunitense, senatore per lo Stato del Vermont e già componente della Camera dei rappresentanti. Esponente indipendente affiliato al Partito Democratico, si qualifica come un socialista democratico.

Michael Rubens Bloomberg è un imprenditore e politico statunitense, co-fondatore e proprietario della società di servizi finanziari, software e mass media che porta il suo nome, Bloomberg LP, per 12 anni sindaco di New York dal 2001 al 2013.

Il candidato alla nomination democratica per la Casa Bianca Michael Bloomberg si è detto «pronto a spendere un miliardo di dollari» per battere Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. Non solo: l’ex sindaco di New York – che dispone di un patrimonio di oltre 50 miliardi di dollari – è disponibile a stanziare il miliardo anche se fosse sconfitto alle primarie: in quel caso, assicura, sosterrebbe finanziariamente uno dei suoi attuali rivali, Bernie Sanders o Elizabeth Warren, nonostante le evidenti differenze politiche.

Lo ha dichiarato lo stesso Bloomberg in un’intervista al New York Times. La sua strategia è di mettere in piedi una campagna con centinaia di attivisti pagati e un’imponente operazione sui social da mettere a disposizione di chiunque si aggiudichi le primarie del partito democratico. «Dipende se il candidato avrà bisogno di aiuto: se stanno andando molto bene, avranno bisogno di meno. Altrimenti ne avranno bisogno di più», ha spiegato. Il miliardario dichiara di aver già speso oltre 200 milioni di dollari in pubblicità: andando di questo passo, a marzo Bloomberg supererà la spesa sostenuta da Barack Obama per tutta la campagna 2012.

Se si profila, a livello del partito democratico, la solita competizione tra un candidato più radicalmente di sinistra, Bernie Sanders, e gli altri decisamente più moderati, la vera sfida sembra essere quella economico-organizzativa in cui giganteggia Bloomberg che ha dichiarato a suon di miliardi la sua guerra contro Trump. La politica, per quello che di essa rimaneva negli Usa, sta per essere definitivamente archiviata dallo scontro fra due tycoon, uno già in sella e uno che aspira, direttamente o indirettamente, a salirvi. I giochi sono molto scoperti, non c’è alcun ritegno o pudore: chi più ne ha (di soldi e di capacità imprenditoriali) più ne mette. E vinca il più ricco e il più capace di comprare i voti. Il voto di scambio, davanti al quale noi italiani giustamente ci scandalizziamo, diventa il criterio determinante delle elezioni americane. Forse in parte è sempre stato così, forse ultimamente era ancor più così, adesso è totalmente ed assolutamente così.

Se fossi un cittadino statunitense, senza conoscere le caratteristiche politiche sostanziali dei candidati, mi aggrapperei comunque a Bernie Sanders per quel poco di sinistra che lascia intendere, anche se mi dovrei turare naso ed orecchie se dovesse essere sovvenzionato dal perdente (?) Bloomberg e prendendo come obiettivo quello di mandare a casa Trump (non è molto, ma non è neanche poco). Se però la sfida dovesse essere direttamente fra Bloomberg e Trump, non mi resterebbe altro da fare che emigrare, con l’imbarazzo della scelta del Paese a cui chiedere asilo politico. Sarà ancora vero che, come diceva Winston Churchill, “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”? Lo affermava circa settant’anni fa, quando io non era ancora nato. Sarà meglio che mi rimetta a studiare seriamente la storia contemporanea per sapermi regolare. Non vorrei che negli Usa crollasse il muro della democrazia sotto le picconate di Trump e Bloomberg. John Kennedy in un suo famoso discorso del 1963, mentre era in visita ufficiale alla città di Berlino Ovest, affermò: «Siamo tutti berlinesi!». Intendeva così garantire ai tedeschi della parte democratica l’alleanza, l’appoggio e l’aiuto. Chi potrebbe essere il leader dotato di carisma democratico al punto da recarsi in visita ufficiale a Washington per dichiarare: «Siamo tutti statunitensi, ma contrari alla vostra democrazia e al vostro presidente!»?