Gli anticorpi della resistenza e il vaccino della democrazia

Oggi sento il dovere civico di soffermarmi un attimo sulle elezioni regionali emiliane. Lo faccio operando un paradossale e tremendo collegamento, con la cronaca che, purtroppo, mi offre un drammatico spunto, quasi a significare che la politica la porto nel sangue, è una malattia, contratta in famiglia dove mio padre mi ha impartito le prime indimenticabile lezioni di democrazia vissuta, dove mia sorella Lucia mi ha inoltrato e guidato sul sentiero impervio dell’impegno politico lontano da ogni compromissione col potere, in  “oltretorrente”, il rione dove ho respirato la politica fin da bambino, dove i borghi, gli angoli, gli androni delle case parlavano di antifascismo, dove la gente aveva eretto le barricate contro la prepotenza del fascismo, dove la battaglia politica nel dopoguerra si era svolta in modo aspro e sanguigno, dove il popolo, pur tra mille contraddizioni, sapeva esprimere solidarietà.

Con questi attivi ed efficacissimi anticorpi in circolazione, posso azzardarmi a parlare di virus. Siamo infatti terrorizzati dal virus cinese, che si sta inesorabilmente propagando, dandoci la peggiore delle idee sulla inevitabile globalizzazione del nostro vivere. Sono patetici i tentativi di contenere l’epidemia mettendo in quarantena città con milioni di abitanti o misurando la febbre alle migliaia di viaggiatori negli aeroporti. Siamo destinati a convivere con questi fenomeni: non capiamo da dove nascano e dove ci possano portare. Anche la scienza si rivela piuttosto impreparata e incapace di combattere queste gravissime malattie di origine virale. Nessuno se ne può considerare immune finché non arriverà un vaccino a toglierci dalla paura.

Ebbene, azzardo un paragone impossibile ed esagerato: nel mondo sta girando un virus politico, che comporta le tremende malattie del nazionalismo, del populismo e del sovranismo e che, come tutti i virus che “si rispettano”, è sfuggevole in quanto soggetto a continue mutazioni. L’epidemia dilaga: dagli Stati Uniti al Brasile, dalle Filippine all’Europa orientale finanche alla Gran Bretagna. Non pensiamo di rimanerne indenni con un’alzata di spalle o ritenendo si tratti di fenomeni che non ci riguardano. Ci siamo dentro anche noi italiani, eccome! Il nostro protagonista virale ha un nome ed un cognome, ma sta accumulando troppi insensati consensi. Prima che sia troppo tardi, cerchiamo di vaccinarci: in questo campo il vaccino e le medicine esistono, ma bisogna curarsi per tempo e in modo serio. I sintomi della malattia li conosciamo: egoismo, paura, insofferenza, intolleranza, odio, discriminazioni, razzismo, etc. La quarantena non serve, bisogna avere l’umiltà di curarsi all’ambulatorio della storia e all’ospedale della democrazia e soprattutto ricordando le cure messe in atto dai nostri padri, che hanno saputo “resistere” alla devastante febbre del fascismo e del nazismo.

Durante le sue penose peregrinazioni elettorali, Matteo Salvini, tra una stupida e vomitevole citofonata e una strafottente apparizione al mercatino, ha raccolto qualche sacrosanto insulto (bisogna infatti reagire finché si è in tempo): a Bologna, due donne (sempre le più coraggiosamente istintive) lo hanno apostrofato, facendogli chiaramente capire che in terra emiliana la libertà ce la siamo conquistata e non sarà certo lui a togliercela o a condizionarcela in modo più o meno subdolo. Abbiamo l’antidoto al suo veleno e lo ricaviamo dal sangue dei tanti martiri per la libertà ed è un sangue che, come quello di san Gennaro, non perde la sua vitalità.

Non vado oltre, ricordo solo che, quando mi accingo a votare, rivolgo sempre il mio deferente pensiero a tutte le persone che sono morte per conquistarmi questo diritto e quindi devo almeno cercare di esercitarlo in modo serio e solidale. Cercherò di farlo anche in questa occasione.