La pietra sepolcrale di un brutto film

Chissà perché mi sono lasciato prendere dalla voglia di assistere alla proiezione di “Hammamet”, un film diretto da Gianni Amelio, che racconta gli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi. Se si toglie la recente visione di una pellicola sulle “Aquile randagie”, il movimento antifascista nato all’interno dello scoutismo, a cui convintamente ed operosamente aderì mio zio don Ennio Bonati, da circa un quarantennio non entravo in una sala cinematografica, si potrebbe dire “un po’ per celia e un po’ per non morir”.

Per recarsi al cinema bisogna ormai fare i conti con gli ambaradan delle multisale inserite in moderni e disgustosi “paesi dei balocchi”, con una scarica infinita e frastornante di messaggi pubblicitari, con un autentico bombardamento acustico, in un clima situabile a metà fra il luna park e il centro commerciale. Ma come ben si sa, io sono uomo d’altri tempi e quindi…

Bando ai pur significativi preamboli. Ho visto il film che tenta la ricostruzione romanzata dell’ultima fase della vita di Craxi. Sovrapporre il cinema alla storia è operazione difficile e delicata, che a Gianni Amelio non è riuscita, nonostante la messa in campo di tutti i più banali e scontati strumenti della narrazione (il nipotino che fa da specchio alle scelte culturali del nonno; la coscienza critica impersonificata dal figlio di un collega di partito; l’amante che ritorna a disturbare la pace dei sensi; l’inaspettato visitatore salottiero; l’ingombrante presenza-assenza dei famigliari) e nonostante una minuziosa e pedante ricostruzione fisico-caratteriale del personaggio (lo fanno parlare sempre con i toni delle risposte ad una intervista). Anche la tanto osannata interpretazione di Pierfrancesco Favino finisce con l’essere una pedissequa imitazione: tutti dicono che l’attore ha fatto un capolavoro; assolutamente sì, dal punto di vista della recitazione; assolutamente no dal punto di vista dello scavo umano e psicologico. In fin dei conti, il difetto principale del film è proprio quello di appiattirsi nella insistita e stucchevole ricerca “dell’impersonificazione”, tralasciando la drammatica e sentimentale immaginazione.

Ne esce un ritratto impietosamente schiacciato su ben noti difetti umani e su altrettanto noti limiti politici, un personaggio nato, cresciuto, ingigantito dall’assenza del decisivo dialogo fra comunisti e democristiani, in gran parte dovuta all’omicidio di Aldo Moro, ma anche alle colpevoli indecisioni dei due partiti. Così Craxi seppe insinuarsi e insediarsi nella politica italiana, ricattando a sinistra i comunisti trascinati in obbligate coalizioni periferiche e a destra i democristiani avvinghiati al potere centrale: due pilastri tenuti insieme dal collante del sistema affaristico portato all’eccesso. Il disegno sostanzialmente conservatore non era certo riscattato da alcune intuizioni ideologiche (l’appoggio ai movimenti dissidenti nei paesi dell’est europeo), da alcune coraggiose scelte di politica estera (Sigonella), da alcune intuizioni moderniste e mediatiche immediatamente piegate all’imprescindibile affarismo (i nani, le ballerine, Berlusconi).

Speravo che il film ridesse dignità ad un passato storico da rileggere con spietata calma e con ritrovata obiettività, invece tutto buttato nella pentola borbottante di una rivisitazione frettolosa e superficiale. Mi illudevo che potesse ridare spessore umano alla lontananza ed alla disperazione dell’esilio. Niente, tutto inquadrato negli angusti confini del personaggio testardamente simile a se stesso.

Il messaggio del film è talmente equivoco da essere colto con tardivo, inutile ed ulteriore disprezzo dai detrattori del craxismo, ma nello stesso tempo da essere apprezzato dagli osannanti cultori dell’uomo forte che aggredisce e mangia cinicamente la politica. Non c’è la storia se non in una quasi impercettibile filigrana, non c’è l’umanità se non in una banale e scontata rivisitazione, non c’è la politica se non in un sottofondo di lettura unilaterale, non c’è giustizia se non in una comprensibile ma faziosa visione del condannato, non ci sono valori se non nella loro presuntuosa e ambiziosa relativizzazione. Un film negativo da tutti i punti di vista, che peraltro non concede a Craxi nemmeno l’attenuante della contraddizione, di cui siamo tutti, più o meno, vittime.

Peccato perché gli ingredienti potevano esserci: la ciambella non è riuscita col buco. Alla fine ero talmente irritato dal pressapochismo storico e dal superficialismo umano, da non aspettare nemmeno la fine della proiezione della pellicola, peraltro piuttosto noiosa e raffazzonata. Ho avuto l’inopinata conferma di una mia strana idea, che forse si è stratificata a copertura di una delle mie tante carenze culturali: il cinema è qualcosa di fuorviante, perché non ha l’obiettività della storia e non ha nemmeno la fantasia della letteratura, è qualcosa di mostruosamente “inculturale” e pericolosamente “antieducativo”.  Forse non è un caso se i bambini nel loro spontaneo approccio vanno al cinema per sgranocchiare i pop-corn: il resto scivola via e, se non scivola, lascia un segno pericoloso. Non mi resta che aspettare un altro quarantennio prima di varcare la soglia di una sala cinematografica (magari non ne esisteranno più…). Un po’ per celia e un po’ per non morir.