La tentazione del non decidere

Sembra che il tormentone dei rapporti fra lo Stato e la concessionaria società Autostrade si stia concludendo con la revoca. Il problema è sorto all’indomani del crollo del ponte Morandi a Genova, che ha causato la morte di 43 persone, oltre a 566 sfollati e danni enormi da tutti i punti di vista. A questo catastrofico evento ne sono succeduti altri di modesta entità, ma in una concatenazione che dimostrerebbe una colposa carenza di controlli e di manutenzione sulle strutture la cui gestione viene data in concessione ai privati.

Non si è capito e forse non si capirà mai fino in fondo se le indiscutibili carenze siano la causa vera e propria del crollo e a chi facciano capo tali inadempienze: certamente qualcuno ha agito male, mentre la situazione delle strutture stradali si sta rivelando un autentico colabrodo.

Sono molti i problemi conseguenti: dalla validità delle scelte di privatizzazione alla impostazione delle concessioni, dai controlli al rispetto degli obblighi contrattuali. Al di là di tutto e senza voler scaricare tutte le colpe su un capro espiatorio, credo che, come ha dichiarato il premier Giuseppe Conte, la revoca della concessione alla società Autostrade si imponga quale misura inevitabile: una sorta di punto e a capo per impostare il futuro su basi più serie e credibili in un settore delicatissimo e importantissimo.

Il discorso della revoca comporta tuttavia una serie di conseguenze dal punto di vista giuridico ed economico. Al danno dei crolli rischia di aggiungersi la beffa dei risarcimenti per la risoluzione dei contratti: non ho capito fino a che punto la revoca sia giustificata da provati inadempimenti, emergenti dal dossier elaborato dalla commissione d’inchiesta del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Da una parte l’analisi tecnica delle responsabilità non lascerebbe dubbi, ma esistono perplessità sulla ricaduta finanziaria delle penali e sulle conseguenze di un prevedibile contenzioso legale. La società Autostrade andrebbe in crisi se non in fallimento con ricadute negative anche dal punto di vista occupazionale.

Si tratta di una patata bollente nella pentola dell’attuale governo e c’è l’impressione che se la stiano passando di mano in mano in modo smaccatamente strumentale. Mentre posso intuire le perplessità sul piano giuridico, non riesco a capire le titubanze politiche. Posso convenire che suonino come demagogici i proclami epici di Luigi Di Maio quando afferma che «non si devono più fare profitti sulle nostre autostrade, mettendo a rischio la vita di molti italiani»: sono parole che dicono tutto e niente, buttate solo per cercare una contromisura populistica per i propri insuccessi governativi. Di qui a coprire tutto sollevando il solito polverone la distanza è abissale e inaccettabile.

Qualcuno sventola il rischio che gli italiani debbano pagare risarcimenti miliardari per una gestione pressapochista dei rapporti giuridici in essere: può anche essere, e allora? Mi sembra che le posizioni siano sostanzialmente due: chi vuole la revoca a prescindere e chi la vuole rigidamente collegare alle pronunce legali e giudiziarie. Non invidio la ministra delle Infrastrutture che, infatti, sembra si stia spazientendo di fronte ai tentennamenti vari, in primis quelli del suo partito. Si arrivi a decisioni serie e motivate e ognuno si assuma le proprie responsabilità.

Mi sta bene e posso capire dubbi e incertezze, ma mi fa letteralmente schifo chi, data ormai per scontata la revoca della concessione, si pone il problema dell’opportunità di uscire con la notizia prima o dopo il voto in Emilia-Romagna. Sono atteggiamenti che squalificano la politica in modo irreversibile. Non chiediamoci poi perché aumentino sfiducia e qualunquismo nei cittadini.