La tragica scuola dell’antiterrorismo

L’ennesimo attentato terroristico dell’Isis ha colpito, occasionalmente o volontariamente, una pattuglia italiana, che stava operando al fianco dei peshmerga curdi impegnati in una vasta azione antiterrorismo. Questi cinque uomini italiani, rimasti gravemente feriti, incursori dell’esercito e della marina, stavano facendo in Iraq il loro lavoro di istruttori, che prevede un addestramento in poligono e un addestramento in azione. Di loro si sa che sono veterani di missioni all’estero e preparavano al combattimento i colleghi curdi.

Come sostiene il corrispondente della “Stampa”, a cui ho fatto riferimento per capire l’accaduto, erano impegnati in un lavoro intrinsecamente pericoloso, in quanto per forza dovevano andare sul campo per vedere se i loro allievi erano in grado di combattere contro l’Isis e verificare quindi se il loro addestramento aveva funzionato: hanno partecipato, come istruttori, ad una sorta di esercitazione pratica sul campo. L’azione contro i terroristi dell’Isis era andata bene con la scoperta di armamenti e rifugi, però, quando l’azione era da considerarsi finita, è scattata la trappola e un ordigno è improvvisamente esploso al loro passaggio con effetti micidiali.

Sono rimasto, come del resto credo tutti gli italiani, colpito dall’accaduto: giovani vite colpite e compromesse in una assurda scaramuccia vendicativa operata dall’Isis. Erano stati inviati in Iraq dallo stato italiano per svolgere compiti di sostegno a chi combatte i terroristi: un modo strano e per certi versi equivoco di partecipare a questa guerra, mettere a disposizione il know-how dell’esercito italiano a favore dei combattenti contro l’Isis.

Poi mi sono posto alcune domande, come forse avranno fatto molti italiani: fino a che punto ha senso lasciarsi coinvolgere, seppure molto parzialmente, in una guerra? Mi sono chiesto: è una guerra difensiva contro la follia terroristica islamica? siamo sicuri che il terrorismo non si possa combattere in altri modi? non vediamo che queste guerre sono infinite e, quando sembra ad un passo la vittoria, tutto torna in gioco (la dinamica dell’attentato di Kirkuk lo dimostra: l’operazione aveva avuto successo, ma…)? non ci rendiamo conto che i terroristi in fin dei conti fanno anche comodo e v’è chi li foraggia, li arma, li strumentalizza?

Domande che vanno ben oltre le mie conoscenze, ma che mettono in crisi la mia coscienza: capisco che il terrorismo islamico vada combattuto e che non si possa farlo agitando ramoscelli d’ulivo, ma… Me la cavo riprendendo di seguito un passaggio contenuto in una mia articolata e documentata ricerca in materia di terrorismo islamico (peraltro pubblicata integralmente su questo sito).

“La coalizione anti Isis, plasmata all’insegna della realpolitik, è assai simile ad un’armata brancaleone, da cui non si sa cosa aspettarsi. Le contraddizioni di questi Paesi arabi sono riconducibili al dilemma amletico tra dittatura o non dittatura: la dittatura importata dall’Occidente o la non dittatura illudente della religione musulmana. Le dittature anti occidentali, ma sostanzialmente laiche, di Saddam Hussein in Iraq e Gheddafi in Libia sono miseramente crollate sotto i colpi di una falsa crociata contro questi sanguinari personaggi, ma in realtà con l’illusione di riprendere il controllo di questi Paesi o quanto meno di farli rientrare in un gioco controllabile: alla fine l’Iraq e la Libia sono state regalate al Califfato, mentre la Siria, invece pure. È pur vero che la storia è fatta di realpolitik e non di rispetto dei principi, ma la differenza, come sempre, la fanno gli uomini e la loro intelligenza politica. Ed è proprio questo che mi rende pessimista”. Intanto però facciamo la guerra o facciamo finta di non farla, sacrificando comunque la vita di tante persone.

Mio padre, ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra, reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?». E, con questo interrogativo etico molto più profondo di quanto possa sembrare, (non) termino il discorso.