Dopo un muro, tanti muri

Più che di retoriche celebrazioni l’anniversario dell’abbattimento del muro di Berlino ha bisogno di profonde riflessioni. Parto da un brevissimo accenno storico, per ricordare in modo oggettivo e non sentimentale la triste realtà che ha caratterizzato per tanti anni l’assetto mondiale dopo la seconda guerra mondiale: dalla immensa e cruenta tragedia del conflitto alla tacita e sepolcrale tragedia della pace.

Il Muro di Berlino era un sistema di fortificazioni fatto costruire dal governo della Germania Est (Repubblica Democratica Tedesca, filo-sovietica) per impedire la libera circolazione delle persone tra il territorio della Germania Est e Berlino Ovest (Repubblica Federale di Germania). È stato considerato il simbolo della cortina di ferro, linea di confine europea tra le zone controllate da Francia, Regno Unito e USA e quella sovietica, durante la guerra fredda. Il muro, che circondava Berlino Ovest, ha diviso in due la città di Berlino per 28 anni, dal 13 agosto del 1961 fino al 9 novembre 1989, giorno in cui il governo tedesco-orientale si vide costretto a decretare la riapertura delle frontiere con la repubblica federale.

Ricordo quei giorni del 1989 e anni successivi, durante i quali cadevano come birilli i regimi comunisti dell’est europeo: ero contento, finiva un’epoca di mera “non guerra” e speravo iniziasse un’era di vera libertà e pace.  Non è stato purtroppo così. È crollato l’impero sovietico sostituito strada facendo dal più piccolo ma ancor più subdolamente mafioso impero russo, sfociato nel putinismo dei giorni nostri. I Paesi satelliti dell’URSS, liberati dal giogo sovietico e dal regime comunista, si sono impantanati in una frettolosa transizione verso la democrazia ed il capitalismo, allargando, se possibile, le loro miserie economiche e aderendo ai peggiori difetti del sistema occidentale. Verrebbe da dire, con un po’ di esagerazione, passando dalla padella alla brace. Il tutto espresso all’epoca da una profetica vignetta di Forattini: si allontanavano festanti dalle macerie politiche del muro di Berlino e si incamminavano titubanti verso le asprezze etiche del capitalismo, emblematicamente fissate nelle siringhe utilizzate dai tossicodipendenti. Barattavano pezzi di cemento antidemocratico con strumenti di evasione mortifera.  Siamo ancora nel pieno di questa transizione, anche perché la frettolosa adesione di questi Paesi ex-comunisti alla UE non ha fatto altro che far esplodere ulteriormente le contraddizioni reazionarie del post-comunismo. L’Occidente non è stato capace di accompagnarli sul difficile cammino della conversione ed è addirittura arrivato, con la presidenza americana di Donald Trump, a cavalcarne i peggiori istinti egoistici e nazionalistici.

Il muro di Berlino piano piano è stato sostituito dai muri reali e virtuali della nostra epoca, che globalizza le economie e localizza le democrazie. L’americano Trump costruisce un vergognoso muro divisorio verso il Messico in chiave anti-migratoria; gli inguardabili ungheresi ne hanno costruiti ben due, uno verso la Serbia e uno verso la Croazia, per difendersi dall’arrivo dei migranti; Matteo Salvini ha piantato i muri nel mar Mediterraneo nell’illusoria e incivile difesa delle nostre coste contro l’invasione dei migranti del mare. Potremmo continuare nell’inventario delle tragicomiche chiusure ermetiche approntate da un falso ed egoistico concetto di benessere. In buona sostanza alla divisione del mondo in blocchi contrapposti stiamo sostituendo la divisione in tanti blocchetti: della serie “piccolo è bello”.

Abbandoniamo quindi ogni e qualsiasi enfasi trionfalistica: è caduto il muro di Berlino, ma le sue macerie non sono servite per costruire equilibri sostanzialmente diversi. Siamo avvitati su noi stessi, in attesa che scoppino guerre ora qua ora là, ora combattute militarmente, ora, come del resto sempre succede, basate su sporchi e camuffati interessi economici, ora dipinte di sovranismo e populismo. Facciamo il rovescio della vignetta di Forattini: voltiamoci indietro e accorgiamoci che stiamo tornando, con piantate nelle braccia le siringhe dell’egoismo e della paura, né più né meno alle macerie del muro, interpretando nel peggiore dei modi la storica affermazione di Kennedy: “Siamo tutti berlinesi”.