Seri dubbi e demagogiche certezze

Molti anni or sono, in un confronto televisivo tra l’intelligente e brillante giornalista-conduttore Gianfranco Funari e l’allora segretario del partito popolare Mino Martinazzoli, uomo di grande profondità etica e culturale, il politico, interrogato e messo alle strette, non si fece scrupolo di rispondere in modo piuttosto anticonvenzionale ed assai poco accattivante, ma provocatoriamente affascinante, nel modo seguente (riporto a senso): «Se lei sapesse quante poche certezze ho e da quanti dubbi sono macerato… Nutro perplessità verso chi ostenta troppe certezze». L’esatto contrario dell’attuale cliché che vuole tutti pronti a sputare sentenze su tutto.

La sentenza è arrivata in questi giorni: mi riferisco a quella della Consulta, che ha dichiarato incostituzionale l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, ammettendo conseguentemente per il futuro che ogni ergastolano, mafioso compreso, possa rivolgersi al giudice di sorveglianza per chiedere i benefici carcerari (permessi-premio, semilibertà, possibilità di lavoro esterno). Per i mafiosi la condizione imprescindibile per godere di tali benefici era finora la collaborazione con la giustizia (in una parola il cosiddetto pentitismo), d’ora in poi la Corte costituzionale dice che la collaborazione non può essere il requisito unico per valutare un mafioso all’ergastolo, ma ci sono altri requisiti: la cessazione dell’adesione all’associazione criminale, la mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, la partecipazione al percorso rieducativo.  In estrema sintesi, mentre fino ad ora il detenuto ergastolano per delitti mafiosi, se non collaborante e pentito, veniva considerato in modo assoluto come un pericolo sociale e quindi non poteva uscire di carcere per nessun motivo, adesso la valutazione caso per caso spetterà al magistrato di sorveglianza, la cui valutazione dovrà basarsi sulle relazioni del carcere nonché sulle informazioni di varie autorità competenti in materia.

Di fronte a questa sentenza, peraltro in linea con una recentissima decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è scatenata la reazione dei politici in cerca di facili polemiche con cui attirare il consenso della gente poco informata e molto allarmata in una materia delicatissima e fortemente strumentalizzabile.

Se devo essere sincero di fronte a questa problematica mi sento, come diceva Martinazzoli, pieno di dubbi e con poche certezze. Da una parte capisco e condivido come ogni carcerato, ergastolano compreso, abbia diritto alla rieducazione e quindi a seguire un percorso di reinserimento sociale che comporti quindi certe concessioni. Se questo discorso debba valere anche per i mafiosi non ufficialmente e concretamente “pentiti” è un punto assai discutibile: siamo di fronte a persone che generalmente si sono macchiate di crimini orrendi, che spesso mantengono anche dal carcere subdoli rapporti con la criminalità e per le quali risulta difficile capire se siano disposte a cambiare radicalmente mentalità e vita. Da una parte tutti hanno diritto a una prova d’appello, ma al contempo la società ha il diritto/dovere di difendersi e di segnare un netto contrasto rispetto alle organizzazioni mafiose recidendo con esse ogni e qualsiasi legame diretto o indiretto.

La Corte costituzionale ha rinviato il problema alla valutazione del magistrato di sorveglianza, il quale dovrà tenere conto del comportamento tenuto dal carcerato e della venuta meno della sua pericolosità. Non sarà così facile ottenere in pratica i benefici rieducativi anche se, in teoria, non possono essere aprioristicamente ed assolutamente esclusi.  In fin dei conti è giusto che la magistratura, che ha comminato la pena, decida sul decorso della pena stessa, seppure in diverse sedi giudiziarie.

Se comunque mantengo seri dubbi sulla validità del pronunciamento della Consulta, nutro la certezza che la politica deve smetterla di scandalizzarsi di tutto per raccogliere consenso e facendo mera e continua propaganda elettorale. Si chiamino Lega o M5S, ci diano un taglio e facciano politica seriamente, lasciando ai giudici il loro mestiere e soprattutto alla Corte costituzionale quello di stabilire la compatibilità delle norme di legge con la Carta fondamentale della nostra società democratica.