Ho assistito in televisione con un mix di sensazioni tra l’imbarazzo, il disgusto e la soddisfazione alla conferenza stampa congiunta (?) del presidente Usa Trump e di quello italiano Mattarella, tenuta a latere degli incontri svoltisi nella capitale statunitense. Ho usato tre termini non a caso e infatti cerco di seguito di spiegarmi.
L’imbarazzo era dovuto al fatto di essere, come italiani, alleati storici di un Paese, che ha avuto il pessimo gusto di affidarsi ad un personaggio simile: sprizza presunzione e prepotenza dalle posture che assume, dai toni dei suoi discorsi, dagli atteggiamenti che ostenta, dall’aria di sfida che esibisce. Come minimo, umanamente parlando, è un maleducato, come massimo un arrogante. Sembrava dover scoppiare da un momento all’altro nel suo tronfio auto-compiacimento. Anche Mattarella era imbarazzato e probabilmente soffriva il non poter abbandonare la tribuna per segnare una differenza etica prima che politica.
Il disgusto derivava da un acuto senso di avversione e ripugnanza fisica e morale verso il modo cinico e aggressivo con cui Trump concepisce i rapporti internazionali, fra un menefreghista isolazionismo e un subdolo interventismo, tra un ostentato senso di superiorità e una falsa e formale disponibilità al dialogo. La questione siro-turca era trattata come rissa da cortile di un ben lontano condominio, il problema dei dazi doganali come un normale e drastico scontro fra interessi contrapposti. Il mondo concepito come sommatoria di conflitti da affrontare con cinismo e spregiudicatezza.
Però in me c’era anche molta soddisfazione, quella di essere rappresentato da Sergio Mattarella, che, in tutto e per tutto, educatamente, sobriamente e sommessamente, faceva una sorta di controcanto a Trump. Poche parole, dette bene, mirate al nocciolo metodologico dei problemi: il dialogo, il confronto, la collaborazione, la visione globale, l’europeismo nell’internazionalismo, le alleanze per crescere insieme a tutti. Lo scontro fra due impostazioni totalmente diverse. Arrivo a vedere la contrapposizione tra due culture e due civiltà.
In quella conferenza stampa l’Italia, nella concezione trumpiana, era il parente povero tollerato a malapena, ma mentre il presidente Usa esibiva la debolezza dei muscoli, il presidente Mattarella sfoderava la forza della consapevolezza dei propri limiti, della propria dignità e della buona volontà. Abbiamo dato una autentica lezione agli Stati Uniti: la diplomazia di chi non si sente inferiore né superiore a nessuno e crede nella forza del confronto fra le idee e non nel peso delle economie e delle armi.
Mi sono sentito fieramente italiano ed europeo, grato agli Usa per quanto, tra contraddizioni e ingerenze, hanno fatto in passato per il nostro Paese e per il nostro continente, assai preoccupato per quello che stanno attualmente combinando, nella confusione egoistica e populistica, in tutto il mondo di cui siamo parte integrante. Non so cosa produrrà sul piano politico questo vertice italo-americano. L’Italia ha tanti difetti, tante debolezze, tante carenze. Ebbene, nonostante tutto ciò, mi auguro che la testimonianza italiana, proposta esemplarmente da Mattarella, possa essere una goccia di pace nel mare tempestoso di guerra, un messaggio di serietà e coerenza in un mondo pieno di follie e di opportunismi.