La lingua governativa e il dente fiscale

Mio padre non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare, ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto cio? Eccola! Rifletteva ad alta voce di fronte alle furbizie varie contro le casse pubbliche: «Se tutti i paghison e i fisson col ch’l’è giust, as podriss där d’al polastor aj gat…». Un autentico manifesto per la lotta all’evasione fiscale.

Non c’è governo che non inserisca questa necessità nel proprio programma e anche il Conte II non fa eccezione alla regola. Stando ai dati più o meni ufficiali, esaminati in un recente articolo de “La Repubblica”, “l’evasione corre sulle tre cifre, il recupero dell’evasione su due. Ogni anno lo Stato non riesce a incassare 109 miliardi, tra imposte e contributi. Ogni anno ne recupera 16, saliti ultimamente a 19 solo grazie a rottamazioni e condoni. Malgrado i recenti progressi, la montagna dell’infedeltà fiscale è ancora là, integra e minacciosa. E ci impedisce di andare avanti, in tutti i sensi. Facile il conto di cosa potremmo fare con 109 miliardi”. Altro che taglio dei parlamentari…

Quali sono i motivi a cui ascrivere questo fenomeno di malcostume e di malgoverno? C’è di base una mancanza di senso civico e persino di senso religioso. Evadere le imposte, tutto sommato, è una furberia accettabile e, per i credenti, un peccato veniale.

“Le tasse sono una cosa bellissima, un modo civilissimo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili quali istruzione, sicurezza, ambiente e salute”. Il ministro Tommaso Padoa-Schioppa qualche anno fa, discutendo su tasse e welfare, diceva così e aggiungeva: “Ci può essere insoddisfazione sulla qualità dei servizi che si ricevono in cambio, ma non un’opposizione di principio sul fatto che le tasse esistono e che si debbano pagare”. Per i benpensanti destrorsi, che facevano finta di non capire e irridevano ai pronunciamenti etici dell’illustre pensatore prestato alla politica, si trattava di “una frase rivelatrice della cultura e della mentalità, che vede nell’imposizione fiscale una sorta di misura salvifica rispetto al peccato commesso da chi guadagna con il suo lavoro o la sua impresa”, di “una visione penitenziale e punitiva della vita che si combina con il paternalismo altezzoso e arrogante dei governanti di sinistra”.

Qualcuno arriva a teorizzare, dal punto di vista civico ed economico, che non pagare le tasse sia un bene in quanto, così facendo, si sottraggono risorse a corrotti e corruttori, agli spreconi ed ai fannulloni e di conseguenza si rimette in circolo una ricchezza diversamente costretta a rimanere inerte nelle casse dello Stato o a finire nelle mani di profittatori di ogni genere. Questa comoda giustificazione trova un riscontro interessante nella storia del nostro dopo-guerra: il boom economico, si dice, lo realizzarono i piccoli lavoratori autonomi, che, lavorando in nero e sudando sette camice nelle cantine delle grandi città del Nord-Italia, crearono benessere e ricchezza per tutti. Un po’ di verità c’è, ma il discorso è molto più complesso.

Per quel poco che ho imparato lavorando in campo fiscale ed amministrativo, posso affermare che il ginepraio di leggi, regolamenti e adempimenti, esistente in questa materia, non è affatto funzionale ad un minuzioso controllo dei contribuenti, ma finisce col creare il brodo di coltura per l’evasione, soprattutto quella dei pesci grossi, che nuotano con grande abilità nel torbido mare della confusione normativa con l’ulteriore vantaggio di usufruire periodicamente di condoni, totali o parziali che siano. I controlli, eseguiti in base a logiche piuttosto incomprensibili, finiscono col tartassare spietatamente e, a volte anche sommariamente, i pochi che cadono nella rete. Non c’è da fidarsi della buona fede dei contribuenti, ma c’è da dubitare anche della preparazione, competenza e perizia dei controllori. E non aggiungo altro per carità di Patria.

Se il governo Conte II intende voltare pagina avrà, come si suole dire, del filo da torcere. D’altra parte, se è vero come è vero, che un governo di sinistra deve qualificarsi sul piano dell’eguaglianza e della giustizia sociale, non v’è dubbio che la leva fiscale rappresenti uno strumento fondamentale per redistribuire il reddito e per sostenere politiche sociali a favore dei soggetti e dei territori svantaggiati. Nessuno ha la bacchetta magica per far pagare le tasse agli italiani, ma provarci seriamente e concretamente è un dovere per un governo. Se il M5S vuole cambiare il sistema, questa è la via maestra al di là dei velleitarismi contro i poteri forti e contro l’establishment. Se il PD vuole recuperare credibilità e consensi deve avere l’umiltà e la pazienza di ricominciare dal tasto dolente delle tasse.