La chiusura dei porti e dei cuori

I giornali abbondano di profili e commenti alla nomina di Luciana Lamorgese a ministro degli Interni: una notevole carriera a livello burocratico (alta funzionaria ministeriale, prefetto di Milano, consigliera di Stato) e una grande esperienza di carattere tecnico. Si era parlato e discusso della presenza di tecnici d’area all’interno del governo giallo-rosso alla ricerca di una sorta di cuscinetto fra le divergenze politiche dei due partner. Fra le diverse possibilità ci si è limitati a quella del ministero più chiacchierato durante l’era salviniana: Luciana Lamorgese è stata collocata in quel dicastero per rimettere ordine e riaprire i rapporti con l’Europa in materia di immigrazione.

Ha certamente in mano una patata bollente, che non vorrei la politica avesse scelto pilatescamente di scaricare sulla burocrazia. Il problema dell’immigrazione, infatti, non è una questione tecnica, ma uno snodo delicatissimo e intricatissimo della politica nazionale, comunitaria ed internazionale. Ci sono in gioco diritti umani fondamentali, scelte valoriali imprescindibili, rapporti fra stati: tutte le tematiche, culturali, sociali, economiche, sono coinvolte in questo enorme problema. Più politico di così si muore! E allora mi chiedo che senso abbia, al di là dell’indiscutibile valore della persona scelta, affidare un incarico di tale importanza a un tecnico. Ho letto con molta attenzione e ammirazione il curriculum di Luciana Lamorgese, ma alla fine mi sono chiesto: può bastare? Ci vuole ben altro.

Intendiamoci bene non è che il problema possa essere affrontato e risolto da un ministro, men che meno da un ministro tecnico. Occorre sensibilità, visione, coraggio, lungimiranza, autorevolezza: doti che non possono essere chieste ad un tecnico pur bravo che sia. Il fatto è che il punto è troppo difficile e non poteva essere affrontato in un già fin troppo problematico accordo di governo. Si è scelto di soprassedere, accontentandosi di smussare gli angoli politici più acuti con l’austerità dell’alta burocrazia. Se proprio si voleva fare spazio alla tecnica non c’era che l’imbarazzo della scelta fra tanti ministeri, si è andati a parare proprio sul meno adatto per i motivi suddetti.

Mi aspetto almeno che la nuova ministra riporti il discorso nella legalità sottraendolo alla demagogia in cui era finito. Poi c’è tutto il resto. Se Matteo Salvini si illudeva di risolvere il problema chiudendo i porti, mentre i cinquestelle stavano a guardare facendo i pesci in barile, il governo giallo-rosso non si illuda di cambiare rotta chiudendo i cuori e affidandosi all’ex prefetto di Milano (senza nulla togliere al buon cuore del nuovo ministro). Credo sia il punto dolente: devo ammettere di non aver ancora capito quale sia la visione grillina del problema, ma devo aggiungere che non mi è affatto chiara quella del partito democratico. Non è facile, ma proprio per quello bisogna partire da una impostazione di fondo condivisa su cui articolare le scelte legislative e amministrative a livello nazionale e comunitario.

Come ho già scritto, essersi liberati della cappa di piombo salviniana non è poca cosa, ma adesso viene il difficile e il terreno migratorio è quello più insidioso. Sì o no alla chiusura dei porti è un falso problema. Il modo peggiore per approcciarlo partendo dalla fine. Come se nell’alimentazione si partisse dalla pancia o ancora peggio. «Scusi, Lei è favorevole o contrario?» così chiese un intervistatore al mio professore di italiano, in occasione dell’introduzione del divorzio nella legislazione italiana. «Tu sei un cretino!» rispose laicamente stizzito il professore. Ben detto. Vista la deriva della politica ridotta a mera tifoseria, prima o dopo mi aspetto di incontrare qualcuno che in via Cavour mi rompa le scatole chiedendomi: «Scusi lei è favorevole o contrario alla chiusura dei porti?». Tutte le problematiche della nostra società vengono ridotte al ritornello: “Scusi, lei è favorevole o contrario?”. A cosa? Non lo so, ma poco importa. Ormai è vietato ragionare, è fondamentale schierarsi…