Un discorso forbito, cioè ovvio

Ogni epoca ha la sua parolina magica che ne interpreta gli umori e ne sintetizza i pensieri. Nel periodo corrispondente alla mia adolescenza ed alla mia prima giovinezza era di prammatica portare avanti un certo discorso. Il termine abusato nel parlare à la page era appunto “discorso”. Si trattava di uno spunto intellettualoide che serviva per darsi un contegno e per innescare l’aspettativa di un ragionamento culturale impegnato. Il “discorso” si fece protesta ed arrivò addirittura a contestazione più o meno globale ed a rivoluzione più o meno brigatista.

Molti anni dopo arrivò l’evanescente e trasognante “cioè” e schiere di giovani e meno giovani furono educati ed acculturati all’ombra insignificante del cioè: un avverbio utilizzato ben al di là del suo significato per diventare un intercalare obbligato ed insulso. Ai miei tempi, quando si era interrogati, si iniziava la risposta con un “dunque”, che veniva immediatamente cassato dall’insegnante: dunque è infatti una congiunzione con valore conclusivo, esortativo o rafforzativo oppure un sostantivo che significa conclusione, punto fondamentale, momento decisivo. Non ha senso iniziare un ragionamento con “dunque”. Figuriamoci il cioè, che nel tempo è stato addirittura sostituito da un suono non meglio identificato, una sorta di colpo di tosse da emettere parlando di tutto e di niente.

Attualmente, mentre si sta faticosamente spegnendo l’eco dei “cioè” e il “discorso” ha lasciato campo libero alle “cazzate” on line, non può mancare un “ovviamente” che c’entra come i cavoli a merenda: si tratta di un avverbio prezzemolo entrato nel comune parlare di giovani ed anziani, ignoranti e dotti. Se andiamo avanti così il debutto parolaio dei bambini diventerà: “ovviamente mamma”. Questa parolina magica, adottata globalmente ed indipendentemente dalla sua accezione, trova comunque una giustificazione nella odierna inciviltà dell’ovvio: in un tempo in cui c’è ben poco di ovvio, tutto diventa formalmente tale, vale a dire facile e banale, mentre resta o diventa sempre più sostanzialmente difficile e straordinario.

Nel passaggio dal “discorso” al “cioè” c’è la sintesi di un regresso culturale dall’impegno farneticante al disimpegno alienante; nel passaggio da “cioè” ad “ovviamente” abbiamo la transizione dall’ignoranza volgare all’analfabetismo chiccoso, dal rutto pantagruelico allo sberleffo informatico. Ma, ovviamente, non finisce qui, il bello deve ancora venire.