Il canto del cigno pentaleghista

Tra le tante menate propagandistiche alla base dello scontro (vero e falso che sia) tra M5S e Lega spunta finalmente un problema serio, basilare e delicato, quello dell’autonomia regionale, sollevato da alcune regioni, che chiedono una sorta di autonomia rafforzata, e finito sul tavolo governativo.

Si tratta forse del punto più controverso nelle questioni costituzionali: unità della nazione e autonomia regionale, due obiettivi apparentemente inconciliabili e realisticamente difficili da perseguire. La riforma regionale impiegò più di vent’anni a trovare uno sbocco e una realizzazione più per motivi politici che per questioni di principio: da una parte si temeva una scorciatoia al potere per il partito comunista attraverso le regioni rosse, dall’altra si puntava ad accreditarsi come partito del buongoverno a livello regionale per poi avere le carte in regola per la scalata nazionale. Si sono rivelate entrambe questioni infondate: il Pci, come disse all’epoca il segretario socialista Francesco De Martino, non fece la rivoluzione con l’esercito dei vigili urbani, lo stesso Pci non riuscì a far saltare col grimaldello regionale la storica pregiudiziale democratica sollevata nei suoi confronti a livello nazionale ed internazionale (ci volle ben altro…).

Oggi il problema è diverso, ma per certi versi uguale, sostanzialmente ancor più difficile alla luce dell’esperienza amministrativa di quasi cinquant’anni, che non ha comportato effettivi e decisivi passi avanti nella sburocratizzazione degli apparati, nella partecipazione dei cittadini, nella soluzione dei problemi. Sono molto critico sui risultati ottenuti dalle regioni e francamente non so se sia necessario un passo avanti o un passo indietro. La Lega ne fa una questione di vita o di morte per la sua filosofia politica e per il sogno, mai riposto nel cassetto, di una Padania, che da entità secessionista si dovrebbe trasformare in parametro e paradigma nazionale ed istituzionale.  Il M5S, che avrebbe dovuto rivoltare l’Italia come un calzino, non ci sta e frena a più non posso, preoccupato di perdere consenso nel meridione impaurito da una scrollata autonomistica.

Non vedo la qualità politica e la sensibilità istituzionale necessarie per affrontare una tale sfida. Siamo ai veti incrociati, ai dispetti reciproci, mentre dell’Italia e del futuro delle sue regioni non interessa niente a nessuno. Temo possa scaturirne un polpettone sgradevole e indigesto. A questo punto l’ideale sarebbe che sulla questione andasse veramente in crisi il governo per azzerare una situazione traballante su tutti i fronti: una sorta di dignitoso canto del cigno. Poi si potrà riprendere il discorso in un clima politico diverso e costruttivo, magari inquadrandolo in una ripensata riforma costituzionale.

Visto che abbiamo un sistema elettorale sostanzialmente proporzionale, visto che i partiti sono frammentati e isolati, visto che una bella ripassata alla pur validissima macchina costituzionale continua ad essere necessaria anche se non sufficiente, visto che un richiamo generale al senso di responsabilità dei cittadini e della classe politica si impone, non sarebbe male eleggere una vera e propria assemblea costituente e nello stesso tempo varare, per il tempo necessario, un governo di salute pubblica.

Sono partito dall’autonomia regionale rafforzata per arrivare ad un rafforzamento delle istituzioni e ad un governo riveduto e corretto.  E la scuola e la sanità e i trasporti? Vanno affrontati seriamente in un contesto diverso per evitare di rovinare anche quel poco di autonomia e di efficienza che c’è. Una cosa sola mi permetto di enfatizzare: nessuno deve rimanere indietro, nessuno deve essere trascurato o dimenticato. Sul come e quando la discussione resta apertissima.