Non sparate sul (cattivo) pianista

La Corte dei Conti, in base alla Costituzione, svolge prevalentemente le seguenti funzioni: controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo, controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato, controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Sono andato a ripassare i compiti di questo organo, perché in questi giorni il suo Procuratore Generale assieme ad altri esponenti, durante la cerimonia di parificazione del rendiconto generale dello Stato per l’esercizio finanziario 2018, ha indirizzato alcuni avvertimenti al governo sul riassetto delle tasse e dei tributi, sull’aumento del deficit, sul debito pubblico, sulla crescita economica, sulla tendenza a dilatare la spesa, sul pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione.

Ho letto con un certo interesse le argomentazioni esposte, che mi sono sembrate tecnicamente ineccepibili. Provo a sintetizzare il ragionamento della Corte dei Conti: lo shock fiscale (la flat tax, detta fuori dai denti) fatto in deficit non porta da nessuna parte; il debito pubblico ha raggiunto i limiti massimi di sostenibilità e finirà col colpire le generazioni future, forse addirittura tre o quattro; per recuperare il debito occorre produrre ricchezza e per produrre ricchezza occorre impiegare risorse e quindi sostenere la ripresa delle attività economiche senza sfondare però ulteriormente il bilancio con una dilatazione della spesa pubblica. Un bel rebus sottoposto al governo, anche se per la verità si tratta di far cadere dall’alto considerazioni che uno studente alle prese con l’esame di politica economica non faticherebbe a elaborare. Certo, se la predica arriva da un pulpito autorevole, vale o dovrebbe valere molto di più.

Non discuto il valore dei richiami alla cautela formulati dalla Corte dei Conti, ma mi è venuta spontanea una riflessione molto banale sui tempi di esternazione coincidenti con la stretta finale dell’improbo contenzioso aperto tra il governo italiano e la comunità europea sulla quadratura (del cerchio) dei conti pubblici italiani. Lasciamo stare il fatto che il governo stia portando avanti la trattativa in un quadro ministeriale confuso e rissoso, che il tono della discussione non sia sufficientemente dialogante ma addirittura provocatoriamente aggressivo, che la posizione italiana risulti isolata e debole, che le proposte del nostro Paese siano contraddittorie e inattuabili. Tuttavia lanciare clamorosamente avvertimenti pubblici proprio nel momento in cui si sta stringendo il discorso per evitare una sciagurata procedura d’infrazione, mi sembra francamente un autogol istituzionale; significa indebolire e delegittimare i rappresentanti del governo, scoprendo ulteriormente l’incertezza e la precarietà che caratterizzano l’attuale compagine ministeriale. Della serie: se anche il vostro organismo di controllo sui conti pubblici ha grossi dubbi e perplessità sulle prospettive a livello economico-finanziario, come facciamo a credere a livello europeo alle vostre analisi ed alle vostre proposte?

Non so fin dove quanto dice la Corte dei Conti sia in questo momento dovuto sul piano giuridico e istituzionale: certe considerazioni, pur nella loro intrinseca serietà, potevano essere più contenute o addirittura anche opportunamente spostate nel tempo? Non si tratta di furbizie istituzionali o di ipocrisie contabili, ma di senso dello Stato, che in questo momento manca un po’ a tutti, con l’eccezione del Presidente della Repubblica. Quanto dice la Corte dei Conti è un ottimo parere da meditare seriamente, ma rischia di essere un pessimo viatico per chi si siederà ai tavoli di Bruxelles a trattare un accordo quasi impossibile (e questa non è certo colpa della Corte dei Conti). Un ragionamento, peraltro discutibile e azzardato, da parte di un italiano molto preoccupato per il suo Paese.