Per troppi euro in meno

Sono impressionanti le cifre che fotografano la situazione economico-finanziaria del nostro Paese: lo spread è attorno ai 270 punti base, cento in più di un anno fa, il doppio del livello a cui era stato lasciato dal governo Gentiloni, ottanta punti in più rispetto allo spread dei titoli greci; il Pil quest’anno crescerà dello 0’1%, con conseguente ulteriore peggioramento del rapporto fra debito pubblico e Pil; incombono due aumenti dell’iva da oltre 50 miliardi nei prossimi diciotto mesi. Ciononostante i due leader di governo si sbizzarriscono a continuare nella politica delle promesse facili.

Nell’ambito governativo il ministro dell’economia Giovanni Tria suona campane a morto: conferma di essere “accademicamente favorevole” all’aumento dell’iva, nega l’esistenza di coperture per un decreto di aiuti alle famiglie, invita a non parlare con leggerezza di sforamento del deficit oltre il tre per cento e, dulcis in fundo, mette in discussione addirittura il bonus degli ottanta euro mensili, concesso dal governo Renzi, un provvedimento, a detta di Tria, fatto male e da riassorbire nell’ambito di una riforma fiscale. Il responsabile dei conti pubblici tenta disperatamente di raschiare il barile per evitare in autunno uno scontro con l’Unione europea, la quale potrebbe già nell’immediato post elezioni aprire la procedura per il debito eccessivo italiano. Con tutto il rispetto scientifico per Giovanni Tria, mi sembra si stia muovendo solo ed esclusivamente per arginare l’incedere dell’elefante nel negozio di cristalli: molta meno visuale e molta più improvvisazione rispetto al tanto vituperato governo Monti (il demonio, stando a grillini e leghisti).

Si aprono due possibilità. O si segue la linea pseudo-rigorista di Tria, atta a riassestare minimamente i conti pubblici e ad evitare un contenzioso con la Ue, oppure si prosegue la linea dissennata, sponsorizzata soprattutto dal leader leghista, di sforare il tre per cento nel rapporto deficit-pil con le gravissime ripercussioni sui mercati finanziari e con la istituzionalizzazione del cane che si morde la coda.

La dilatazione ulteriore della spesa pubblica (aiuti alle famiglie, allargamento del reddito di cittadinanza) e/o la contrazione delle entrate fiscali (flat tax) aggraverebbero la già precaria situazione dei conti pubblici. Questa dissennata politica pentaleghista (per la verità più leghista che pentastellata) fa però i conti senza l’oste, senza l’Europa, così come uscirà dalle elezioni del prossimo 26 maggio. Se verrà confermata, più o meno, l’attuale grande coalizione popolar-socialista a netta prevalenza politica del Nord-Europa, continuerà a premere sull’Italia il rullo compressore rigorista. Se dovesse aumentare il peso dei liberali nordici in un equilibrio politico anti-sovranista, ci troveremmo ancor più messi all’angolo e costretti a rimettere ordine nei nostri conti e nella nostra politica finanziaria. Se si aprisse un varco sovranista, se, a dirla in breve, dovessero acquisire, direttamente o indirettamente, un peso importante gli amici europei di Salvini, l’Italia, tramite la confusione mentale leghista, andrebbe comunque sul banco degli imputati, rimanendo con un palmo di naso di fronte all’egoismo nazionalista degli euroscettici, che non vorranno certamente accollarsi i nostri debiti (lasciamo perdere il fatto che non vorranno neanche accollarsi i migranti che arrivano in Italia).

Le elezioni europee, per l’atteggiamento nei confronti dei conti italiani, rischiano pertanto di non cambiare nulla, se non in peggio. I grillini saranno ancora alla ricerca di alleati più o meno farneticanti; i leghisti in ogni caso avranno un paradossale e ridicolo effetto boomerang. Ci vuole un bel coraggio a votare questi signori per il parlamento europeo. Eppure i sondaggi continuano a prefigurare una vittoria leghista: la vittoria di Pirro.