Tra globalizzazione e glocalizzazione

Oggi mi va di volare alto (o basso a seconda del punto di osservazione). Mi butto a parlare di massimi sistemi.  Il pensiero scientifico sulla globalizzazione rimette, in un certo senso, le cose a posto: toglie le illusioni del ritorno al passato, ma, al contempo, fissa le regole per un futuro diverso. La globalizzazione, come tutte le scoperte e i meccanismi del progresso, può essere un’arma a doppio taglio, da utilizzare quindi con grande prudenza e attenzione. Per dirla con banali e abusati riferimenti storici, non è rifiutando la globalizzazione che si otterrà maggior giustizia sociale, non è sigillando i confini che si arresterà l’immigrazione, non è sbaraccando la Ue che l’Europa tornerà a crescere, non è con l’egoismo nazionalista che si creeranno posti di lavoro, così come gli operai di alcuni secoli or sono non difesero i loro diritti distruggendo le macchine introdotte nelle loro fabbriche.

La prassi politica invece sta prendendo un indirizzo diverso e reazionario. Si parte dal discorso ridotto ai minimi termini, che porta al quesito di fondo: globalizzazione va d’accordo con uguaglianza economica e giustizia sociale o ne preclude il raggiungimento? Dopo l’infatuazione e l’innamoramento iniziali, poco  a poco le contraddizioni si sono fatte vedere e soffrire. E allora? Bisogna cambiare!

Come al solito gli approcci revisionisti sono o possono essere di due tipi: radicale nel rifiuto e nel ritorno al passato; riformista nel sottoporre paradossalmente la “mancanza di regole” ad alcune regole. Dopo la sbornia neoliberista degli anni Ottanta, dopo l’allargamento del Wto, dopo l’implosione finanziaria a Wall Street, si arriva a mettere gradualmente in discussione la mancanza di barriere, regole e vincoli e si ipotizza addirittura un addio totale o parziale alla globalizzazione. Sembra prevalere l’approccio radicale fino al punto di arrivare a teorizzare, seppure in modo paradossale e velleitario, la cosiddetta “glocalizzazione”, cioè un nostalgico e demagogico ritorno al nazionalismo se non addirittura al localismo, col contorno dell’innalzamento di muri e fili spinati, un rifugio nel populismo di maniera, illusionisticamente legato alla riconquista dei vecchi schemi socio-economici.

Mentre il mondo viaggia verso la “globalizzazione” più o meno spinta, la politica si chiude nella “glocalizzazione” più o meno apertamente evocata. Dagli Usa di Trump alla Brexit, da Visegrad al leghismo nazional-regional-popolare, dagli indipendentisti ai celoduristi, le campane sembrano suonare per convogliare la gente sulla via di un nostalgico ritorno al passato. Queste virate anti-storiche presentano non pochi rischi: la storia insegna che per ovviare all’evidenza della confusione progressista bisogna ricorrere al nascondimento delle sfide future, sventolando le bandiere dell’ordine proveniente dalle tragedie passate.

Questa dicotomia tra pragmatismo acritico e ideologismo datato ci sta imprigionando e deviando: in estrema e semplicistica sintesi, sta rivalutando spudoratamente le destre nelle piazze e mettendo decisamente in crisi le sinistre, relegandole nei salotti. C’è un modo per uscire da tale impasse? In teoria sarebbe necessario coniugare la difesa dei valori di giustizia sociale con l’apertura alla modernità strutturale del mondo in rapida evoluzione. Per dirla con una frase evangelica: essere nel mondo senza essere del mondo. Questa citazione non è meramente casuale: vuoi vedere che la politica, se vuol ritrovare un certo equilibrio, deve rispolverare l’ispirazione cristiana?