Le scialuppe di affondamento

“Dum ea Romani parant consultantque, iam Saguntum summa vi oppugnabatur”: mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata. Questa locuzione, risalente al terzo secolo avanti Cristo, al periodo delle guerre puniche, viene usata nei confronti delle situazioni in cui si perde molto tempo in discussioni continue senza prendere una decisione, in un contesto che invece richiederebbe rapidi interventi. Uno degli esempi più noti dell’uso di questo detto si ebbe in occasione dell’omelia tenuta dal cardinale Salvatore Pappalardo al funerale di Carlo Alberto Dalla Chiesa: un duro attacco all’inconcludenza dello Stato di fronte all’aggressione mafiosa e agli omicidi eccellenti di Cosa nostra.

Mi sembra che la locuzione antica mantenga tutto il suo provocatorio significato e possa tranquillamente essere usata per fotografare l’insulsa e colpevole incertezza dei governanti italiani davanti all’arrivo di navi piene di naufraghi, provenienti dall’inferno dei Paesi africani alla disperata ricerca della sopravvivenza rispetto ai tormenti da cui provengono. Ebbene, a questi disgraziati si tende a dare risposte interlocutorie, accampando alibi e discutendo sui loro destini, mentre le loro vite sono letteralmente appese ad un filo.

Si sta a disquisire sul chi e sul come si debba intervenire per salvare questi profughi in balia delle onde; si tende a chiudere i porti in cui le navi dovrebbero attraccare; si litiga, leggi, regolamenti e trattati alla mano, su chi debba ospitarli palleggiandosi responsabilità e competenze; si fanno distinzioni capziose tra le cause per il diritto di asilo; si dubita sulla buona fede dei salvatori; si scarica tutto sulla guerra contro gli scafisti; si teorizzano accordi con i Paesi di provenienza; si fa una celoduristica battaglia contro l’immigrazione alla ricerca dei voti contro le ipotetiche moderne invasioni barbariche. Tutto mentre decine di persone aspettano solo una ciambella di salvataggio vera e propria per continuare a vivere affrancandosi dalle condizioni inumane a cui sono soggetti.

Prima salviamoli, collochiamoli in modo appena dignitoso, poi viene tutto il resto a livello nazionale ed europeo. Il fenomeno va gestito: sono perfettamente d’accordo; occorrono patti chiari e solidali fra gli Stati europei: lavoriamoci alacremente; bisogna pensare a serie politiche di integrazione: apriamoci ad una visione multiculturale e multireligiosa del mondo; smettiamola con i conflitti tra i poveri nostrani e quelli d’importazione: non possiamo sfornare assurde graduatorie della disperazione; ragioniamo sui nostri deficit demografici: vediamo come compensarli con l’arrivo e l’integrazione dei migranti. Tutto possibilmente non a babbo morto, vale a dire dopo aver sepolto in mare i profughi, ma dopo averli, seppure provvisoriamente, accolti.

Cosa pensano di ottenere gli stupidi governanti del “basta”? Oltre l’osservanza dei principi etici che dovrebbero far parte del nostro patrimonio culturale, vi è una imprescindibile esigenza di seguire una politica positiva e costruttiva, abbandonando l’illusione di rimuovere il problema con gli slogan, con i muri, con i fili spinati, con il mero pattugliamento delle coste, con il massiccio rimpatrio dei clandestini.

Ho sentito parlare di un amico della mia famiglia, un uomo buono ma mentalmente un po’ ritardato, che combatteva i topi collocando le trappole. Poi, non avendo il coraggio di eliminarli, li portava in qualche prato periferico e se ne tornava a casa. Trovava l’immediata sorpresa della presenza di altri topi e se ne stupiva pensando che avessero fatto più in fretta di lui a tornare a casa. Mi scuseranno gli immigrati perché non volevo assolutamente assimilare il loro arrivo ad un’infestante invasione di topi. Volevo solo ridicolizzare quanti si illudono di arrestare i flussi migratori con inumani, banali, sciocchi e inutili provvedimenti.