La cattedrale nel deserto

Di fronte all’incendio scoppiato a Notre Dame, che l’ha parzialmente divorata con le fiamme che sembravano non finire mai, sono rimasto senza parola e infatti non riuscivo nemmeno a cogliere e capire il fiume di parole retoriche e di circostanza, che non serviva a spegnere l’incendio.

Pensavo…alla caducità e debolezza delle nostre realtà artistiche e culturali: ci sembrano solide e inattaccabili, invece sono in balia degli eventi. Pensavo…alla nostra storia ed all’orgoglio con cui ne (s)parliamo: abbiamo costruito le cattedrali, ma resta il deserto umano attorno ad esse. Pensavo…al bagaglio di conoscenze accumulate nel tempo: si sciolgono e crollano miseramente come quella guglia divorata dal fuoco.

Qualcuno ha tentato il parallelismo tra il fuoco di Notre Dame e quello delle Torri Gemelle: il dato comune è solo la fragilità delle nostre umane realizzazioni. Qualcuno si è affrettato a cogliere l’aspetto laico dell’evento, non riuscendo a capire che il significato è troppo grande per essere solo laicamente analizzato. “Si fece buio su tutta la terra e il velo del tempio si squarciò a metà”. Non cadiamo però nel rischio opposto: la collocazione temporale nella Settimana Santa, la Francia collocata da tempo nel mirino, la contemporaneità con gli eventi della guerra libica, l’emblematica sacralità della costruzione colpita potrebbero farci entrare nella tentazione di trovare una spiegazione nella irrazionalità terroristica. Non la escluderei del tutto, anche se sarebbe (quasi) troppo comodo.

La politica, distolta dai suoi riti li vuole immediatamente riconquistare, lanciando infantilmente il messaggio della ricostruzione: come quando si rompe un bel giocattolo e il padre premuroso rassicura il bambino sulla pronta sostituzione con un oggetto ancora più bello e godibile. Gli esperti calcolano già i tempi della ricostruzione: decine di anni. I magistrati fanno il loro mestiere e aprono l‘inchiesta, vogliono un colpevole. Gli storici vanno alla ricerca dei precedenti: la storia si ripete o no? I critici d’arte disquisiscono sul paradosso del “dove e come prima”. I media, come al solito, sono saltati addosso all’evento (che non vuol dire seguirlo e farlo seguire): quanta nostalgia per Sergio Zavoli, il quale durante l’alluvione di Firenze aprì la finestra e fece vedere e sentire l’acqua dell’Arno che scorreva per le vie del centro.

Fermiamoci un attimo: facciamo un po’ di silenzio, riflettiamo, pensiamo, lasciamoci mettere in crisi. Possibile che nessuno vada un poco più a fondo per abbandonare le dotte e colte banalità e trovare le umili e piccole saggezze?!