Lo specchietto fiscale in gola ai contribuenti

Mio padre non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare, ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto cio? Eccola! Rifletteva ad alta voce di fronte alle furbizie varie contro le casse pubbliche: «Se tutti i paghison il tasi, as podriss där d’al polastor aj gat…».

Si tratta della premessa obbligatoria a qualsiasi discorso di riforma fiscale: se non si riesce a intaccare il fenomeno dell’evasione, ogni novità in senso incrementativo o diminutivo della pressione tributaria risulta stucchevole e velleitaria. In Italia chi paga le tasse ne paga obiettivamente troppe soprattutto rispetto a chi non paga niente o quasi niente. Quando si leggono i dati sui redditi dichiarati c’è da stropicciarsi gli occhi: è una vergogna! D’altra parte il fenomeno ha via via assunto dimensioni europee e mondiali: i colossi aziendali si spostano negli Stati dove la tassazione è inferiore senza che a livello internazionale si cerchi di trovare un minimo di omogeneità fiscale.

Non indulgo alla provocatoria teorizzazione lirica del “pagare le tasse è bello”, anche se il senso del dovere civico dovrebbe caratterizzare i comportamenti dei cittadini italiani e del mondo; non mi nascondo dietro la demagogica e velleitaria intenzione di “far soffrire i ricchi” per farli magari diventare poveri lasciando i poveri allo loro povertà, anche se la redistribuzione del reddito tramite la leva fiscale dovrebbe costituire un fondamentale punto programmatico per un governo serio e credibile; non pretendo che la politica diventi una gigantesca opzione “robinhoodiana” che ruba ai ricchi per dare ai poveri, anche se l’economia mondiale evidenzia dati incredibili: ordinando la popolazione mondiale per ricchezza si vede che la metà inferiore possiede meno dell’1% della ricchezza totale, il 10% in cima ne detiene l’88% e l’1% di super-ricchi arriva a concentrare la metà di tutta la ricchezza.

Mi attesto sul dettato della nostra Costituzione, che all’articolo 53 dispone: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Il discorso è chiarissimo: tutti devono pagare le imposte e la lotta all’evasione non è un modo di dire, ma un categorico imperativo per chi governa il Paese; le imposte vanno calcolate in modo progressivo alzando il peso fiscale man mano che la base imponibile aumenta.

La lotta all’evasione viene effettuata in modo disorganico ed episodico in base ad una normativa assai burocratica e con mentalità punitiva su pochi per educarne molti. Dall’altra parte si vagheggia una diminuzione delle imposte tramite l’applicazione della cosiddetta “flat tax”, vale a dire una tassa piatta, sostanzialmente proporzionale, che pesa maggiormente sui redditi bassi rispetto a quelli elevati. Esattamente il contrario di quanto prevede la Carta Costituzionale.

Siamo agli specchietti per le allodole. Pagare meno tasse è un discorso accattivante, ma se il cittadino ha la freddezza di ragionare si accorgerà che si tratta di una promessa da marinaio. Se pagassimo tutti potrebbe anche essere possibile, ma poi non tutti in modo proporzionalmente piatto. Le casse erariali oltre tutto non lo consentirebbero, salvo togliere con una mano quanto si concede con l’altra. Una parte degli attuali governanti sostiene che pagare meno tasse metterà più soldi in tasca agli italiani, i quali compreranno più beni e servizi provocando una crescita economica da cui si ricaverà un maggior gettito fiscale a chiusura virtuosa del cerchio. Mi sa tanto della storiella della ricottina, che finisce per sfracellarsi per terra: non c’è bisogno che la ricordi perché la conoscono tutti.