La buccia di banana del “Diciottigate”

«Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale».

Una legge costituzionale ha istituito il cosiddetto tribunale dei ministri, il quale ricevuti gli atti riguardanti  gli ipotetici reati, compie indagini preliminari, sente il pubblico ministero e può decidere l’archiviazione oppure la trasmissione degli atti con una relazione motivata al procuratore della Repubblica, affinché chieda l’autorizzazione a procedere alla camera di appartenenza degli inquisiti, la quale – sulla base dell’istruttoria condotta dall’apposita giunta – può negare, a maggioranza assoluta, l’autorizzazione ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo. Se viene concessa l’autorizzazione a procedere, il giudizio di primo grado spetta al tribunale ordinario del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio e non al tribunale dei ministri. Per le impugnazioni e gli ulteriori gradi di giudizio si applicano le norme del codice di procedura penale.

Nel caso del comportamento tenuto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini in occasione della nota vicenda della nave Diciotti, in prima battuta la procura di Agrigento aveva investito della questione il tribunale dei ministri; questo, dopo aver disposto indagini preliminari ed aver acquisito il parere del pubblico ministero – il quale riteneva  che non si configurasse un reato – , ha ritenuto che  il ministro debba essere rinviato a giudizio ed ha trasmesso gli atti con una relazione motivata alla  procura della Repubblica affinché chieda l’autorizzazione a procedere al Senato. La pratica, giudiziariamente parlando, è arrivata a questo punto.

I reati a carico di Salvini sono sequestro di persona a scopo di coazione, omissione di atti d’ufficio e arresto illegale: sarebbero stati commessi lo scorso agosto, quando il ministro ordinò alla Diciotti, nave militare della Guardia Costiera, di rimanere nel porto di Catania senza far sbarcare nessuna delle 190 persone partite dalla Libia e dirette in Italia, che si trovavano a bordo. Ora il Senato della Repubblica dovrà decidere se il ministro Salvini abbia o meno agito, come detto sopra, per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante oppure per il perseguimento di un preminente interesse pubblico.

L’interessato, quando la procura di Agrigento gli aveva comunicato l’apertura delle indagini nei suoi confronti, aveva detto che intendeva farsi processare e che non avrebbe puntato a salvarsi con un voto parlamentare; poi, invece, sembra che Salvini si aspetti che il Senato neghi l’autorizzazione a procedere.

Il parlamento deve giudicare se il comportamento del ministro sia costituzionalmente e pubblicamente giustificabile. Non a caso il ministro Salvini continua a sostenere di avere agito a difesa della inviolabilità dei confini e per garantire la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico. Siamo nella opinabilità politica o siamo nella trasgressione legale? La forza politica più imbarazzata sembra essere il movimento cinque stelle, oscillante fra la pedissequa linea giustizialista, che vuole il comportamento dei politici sottoposto rigorosamente al vaglio della magistratura, e la repentina virata garantista a salvaguardia degli equilibri di governo sempre più traballanti. In effetti il tribunale dei ministri ha tirato un bel sasso nella piccionaia “pentaleghista”. Sembra prevalere un compromesso “giusgarantista”, dettato più dal timore del calo di consensi e dai contrasti interni alla compagine movimentista che non da una piena assunzione di responsabilità politica. “Si faccia processare e sarà assolto”: questa sembra essere la linea grillina.

Non ha senso, perché, se Salvini ha violato le leggi dalla Costituzione in giù, gli altri componenti del governo non possono sostenere di essere estranei (non c’ero) o di non essersene accorti (se c’ero dormivo); se invece Salvini si è comportato correttamente, significa che i ministri pentastellati erano d’accordo con lui nel metodo, ma anche nel merito e non possono di conseguenza adottare alcuna presa di distanza dal suo operato. Stiano ben attenti a quel che fanno e dicono, perché se Salvini dopo essere stato rinviato a giudizio dovesse essere ritenuto colpevole, la colpevolezza, direttamente o indirettamente ricadrebbe su tutto il governo che si dovrebbe dimettere.  Se dovesse essere scagionato in Parlamento o assolto in tribunale, i grillini dovranno ammettere di essere con lui solidali a tutti gli effetti e di condividere la linea della fermezza (io la definirei “linea della infermità mentale”).

I grillini sembrano dire: “Non muoia Sansone e non muoiano i Filistei”. Ma in ogni caso dovrebbe morire Sansone con tutti i Filistei. L’imbarazzo è grande e si profila all’orizzonte una sorta di “Diciottigate”: una consistente buccia di banana, che potrebbe avere effetti notevoli. Per i pentastellati si profilerebbe la prematura fine del miracoloso ballo durato poco più di una estate. Per Salvini potrebbe essere una vittimizzazione tale da cannibalizzare il grillismo destrorso per poi ributtarsi nel centro destra con una Lega più bella e più superba che pria. Tutto se…