Le galline taciturne della sinistra

Durante un convegno di carattere politico ero seduto fra i partecipanti vicino ad un caro amico a cui certo non faceva difetto la vis polemica. Il dibattito si trascinava stancamente, mancava l’acuto: chi meglio del mio amico poteva risvegliare la platea? Lo convinsi ad intervenire e lo caricai a dovere, invitandolo a “tirare giù senza pietà”. Mi diede retta, lo fece al di là delle mie più rosee aspettative: salì al podio e cominciò ad attaccare con una tal veemenza e soprattutto con una tal genericità da irritare alquanto l’uditorio. Fin qui, missione compiuta. Il bello fu che ad un certo punto, quasi automaticamente, anch’io mi sentii costretto a contestarlo apertamente, gridandogli di smetterla e di andarsene a casa. Lui dal podio mi guardava e non capiva: proprio io che lo avevo aizzato, ora lo attaccavo clamorosamente. Ci volle del bello e del buono per ripristinare l’amicizia, solo la sua innata bontà riuscì a superare l’incidente di percorso.

Ho ricordato questa simpatica gag, perché la ritengo abbastanza significativa di quanto sta avvenendo negli atteggiamenti critici verso l’opposizione di sinistra: a detta di molti commentatori politici non sa fare il suo mestiere, non ha ancora metabolizzato la cocente sconfitta elettorale dello scorso anno, non riesce a cogliere l’attimo e l’argomento giusto per attaccare, non ha il coraggio di ripristinare il collegamento col suo tradizionale elettorato, sta “gioghicchiando” alla meno peggio nascondendosi dietro penosi personalismi, e via di questo passo.

Poi, quando il partito democratico o qualcuno appartenente alla sua area trova il rigurgito di vitalità per opporsi alle derive populiste e sovraniste, imperanti a livello mondiale, europeo ed italiano, o almeno tenta di recuperare la forza di fare argine a queste ondate estremamente pericolose, gli stessi spietati critici gli si rivoltano comunque contro, sostenendo che l’opposizione dura finisce col fare il gioco del governo e col legittimare ulteriormente populismo e sovranismo. Allora cosa si deve fare? È proprio vero, come sosteneva mio padre, che, quando le cose vanno male, a parlare e, ancor più ad agire, si sbaglia sempre e sarebbe meglio aspettare che passi la buriana prima di intervenire attivamente.  Nella vita personale si possono fare simili scelte tattiche attendiste, nella vita politica è molto più difficile e problematico.

Per carattere sono portato a prendere posizione, ad esprimere apertamente il mio pensiero, a schierarmi senza opportunismi e quindi sono per una strategia politica interventista: alla lunga paga. Certo bisogna saperci fare, ma questo è un altro discorso, riconducibile alla qualità del personale politico più che all’opportunità delle battaglie.  Carlo Calenda sta tentando di mischiare le carte prima di darle: vuole trovare le disponibilità piuttosto sparse e sparute, ricondurle ad un minimo comune denominatore europeista e solidale per poi attaccare l’avversario, costituito appunto dalle forze nazionaliste e populiste tatticamente unite nel paradossale discorso storico di “andava meglio quando andava peggio”.

Apriti cielo: Calenda sbaglia, fa un assist ai populisti, liquida il partito democratico, è malato di protagonismo, non sa nemmeno lui quel che vuole, etc. Stando ai si dice, D’Alema e Bersani sarebbero addirittura per un’alleanza tattica con i pentastellati, per non regalarli al fronte sovranista. La malattia della sinistra di autoflagellarsi, dividendosi continuamente, cercando il pelo nell’uovo, non finisce mai. La prima gallina che canta ha fatto l’uovo. Il primo che prende un’iniziativa sbaglia, meglio aspettare Godot. La storia non ha insegnato niente. Peccato…