La politica nel pallone

Aspettavo al varco il ministro Matteo Salvini sul problema della violenza negli stadi. Aveva lanciato qualche provocazione interessante allorché aveva dichiarato insostenibile l’onere a carico dello Stato per garantire l’ordine pubblico dentro e intorno agli stadi e quando si era scagliato contro il comportamento diseducativo dei fuoriclasse del pallone. Mi ero detto: vuoi vedere che siccome tutti i matti hanno le loro virtù, Salvini avrà il coraggio di mettere il dito nella piega su cui finora si sono esercitati i pietosi medici rendendola sempre più puzzolenta? Come spesso succede, tanto tuonò che non piovve.

Ne sta uscendo la solita politica dei pannicelli caldi, che parte da due presupposti sbagliati. Il primo consiste nel considerare ristrette minoranze quelle degli ultras, contrapposte demagogicamente alla stragrande maggioranza dei tifosi perbene. Non è proprio così. Dal punto di vista quantitativo il fenomeno non è affatto marginale: è consistente, diffuso, generalizzato, politicizzato, scatenato. Che fa opinione nelle tifoserie sono questi grossi gruppi di prezzolati ed esaltati, i quali riescono a condizionare l’intero mondo del calcio, dalle società agli allenatori, dai media ai giocatori. Riescono a tenere in scacco le forze dell’ordine, sempre troppo prudenti rispetto all’atteggiamento tenuto nei confronti delle proteste politiche e sociali. Proviamo a chiederci cosa succederebbe dentro e fuori gli stadi se la polizia usasse lo stampo dell’interventismo adottato col G7 di Genova: furono autenticamente massacrati, con violenza inaudita, i giovani che protestavano contro i potenti a convegno. Facendo le debite proporzioni, i tifosi violenti dovrebbero essere sterminati con i gas nervini.

Il secondo presupposto sta nel considerare le misure estreme di lotta alla delinquenza calcistica come una resa della società ai violenti. È lo stesso discorso che si fa con i terroristi islamici: non ci faranno cambiare il nostro stile di vita. Nel caso dei terroristi calcistici: non ci faranno sospendere le partite, non ci costringeranno a chiudere gli stadi, a vietare le trasferte, a sequestrare gli striscioni. In poche parole non ci rovineranno il bel giocattolo pallonaro col quale milioni di persone si trastullano. Il fenomeno calcistico ha in sé ormai ben poco da salvare: non è sport, non è costume, non è spettacolo, non è divertimento. È diventato un puro business per chi ci campa sopra, più o meno lautamente, ed un puro sfogo individuale e collettivo per chi vuole momentaneamente allontanare le proprie frustrazioni. Questa è la verità!

Il governo non ha nessun interesse a toccare i fili di questa alta tensione perché rischierebbe di essere fulminato. Silvio Berlusconi utilizzava anche il calcio per accreditare la sua immagine di benefattore del popolo. Matteo Salvini non può permettersi il lusso di violare il suo populismo intaccandone il pilastro portante del calcio. E allora continueremo coi pannicelli caldi, con qualche occasionale sfuriata, con grida scandalizzate che lasciano il tempo che trovano. Come potevo illudermi che un personaggio che fa politica da bar sport potesse sovvertire l’ordine costituito degli stadi.  Il razzismo triviale dei tifosi è ben poca cosa rispetto all’elegante (?) neo-razzismo dei governanti. La strategia dell’urlo adottata dai tifosi non è che la parafrasi sportiva dell’impostazione politica ormai dominante. L’incontenibile entusiasmo delle curve è la versione calcistica delle illusioni politiche vissute nell’attuale momento storico. Toccare il calcio vorrebbe dire autoflagellarsi, masochisticamente segnare i limiti della presuntuosa incapacità politica di chi è nel pallone.