L’abito non fa la politica

Durante le animate ed approfondite discussioni con l’indimenticabile amico Walter Torelli, ex-partigiano e uomo di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta constatavamo che alla politica stava sfuggendo l’anima, se ne stavano andando i valori e rischiava di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restava che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti: dopo il craxismo, che aveva intaccato le radici etiche della democrazia, venne il berlusconismo a rivoltare il sistema creando un vero e proprio regime ed eccoci arrivati all’antipolitica che fa di ogni erba un fascio o, se vogliamo essere cattivi, che fa del fascio un’erba accattivante.

La politica ha perso identità, assieme all’acqua sporca dell’ideologia abbiamo buttato anche il bambino dei valori e nel giro di qualche decennio ci siamo trovati democraticamente nudi. In una pappagallesca gara al peggior offerente, tentiamo disperatamente di coprire le vergogne, inalberando cartelli e indossando magliette e gilet. Se i grillo-leghisti eccellono nella improvvisata e incoerente ostentazione di maglie (siamo tutti poliziotti, siamo tutti protettori civili), i forzisti, rimasti senza voti, senza piazza e senza dignità (un passo oltre la perdita dell’identità), fanno indossare ai deputati, durante il dibattito (?) alla Camera sulla manovra economica, pettorine azzurre con scritte di vario tipo: “Basta tasse”, “Giù le mani dalle pensioni”, “Giù le mani dal no-profit”.

Non ne faccio una questione di merito (la manovra di bilancio è in continua involuzione, di essa non si capisce niente, quel poco che emerge è senza dubbio censurabile), ma di metodo.  Un Parlamento, dove succedono tutte le cose suddette e forse anche di peggio, può essere tranquillamente ribattezzato “pirlamento”, come ho sentito dire a margine di una lucida e spietata analisi politica formulata da una simpatica anziana signora. Se finisce così, stiamo facendo un perfetto assist qualunquista alle forze dell’antipolitica. Berlusconi vorrebbe allargare la protesta portandola in piazza. Se può avere un senso la sua ansia di riportare il discorso sull’economia per recuperare il consenso delle forze intermedie imprenditoriali, deluse dall’inconcludenza e dalla contraddittorietà leghista, non ha alcun senso scopiazzare il compito in classe altrui, anche perché l’esperienza scolastica insegna che per copiare bisogna essere capaci, altrimenti si aggiunge la scorrettezza all’ incompetenza e all’impreparazione.

In piazza bisogna saperci stare e faccio fatica a vederci Berlusconi con i suoi azzimati e petulanti adepti. Un tempo la cavalcata delle piazze era una specialità della sinistra e dei sindacati dei lavoratori: fanno molta fatica anche loro a recuperare credibilità e consenso a questo livello. Rimane una stucchevole rincorsa alla protesta. La sinistra andava a nozze quando si trattava di essere sistematicamente “contro”: contro i padroni, contro i neo-fascisti, contro i clericali, contro la Nato, contro l’Europa, contro gli Usa, contro i democristiani, etc. etc. Il “contro” oggi è interpretato, in un mix tra destra e sinistra, dall’accozzaglia penta-leghista. Non basta adottarne il metodo per recuperare credibilità e consenso. Meglio cambiare tattica. Forse bisognerebbe soprattutto avere una strategia.