La maggioranza rumorosa

Nel mio patetico girovagare televisivo alla ricerca di qualcosa di culturale che possa riscattarmi dall’attuale piattume, mi sono imbattuto in un fenomeno nato nel 1971 a Milano, quale movimento della media borghesia lombarda, vale a dire la cosiddetta “maggioranza silenziosa”, entrato poi storicamente nel linguaggio politico italiano (e non solo) come termine e concetto caratterizzante non pochi passaggi della vita politica a livello nazionale.

La “maggioranza silenziosa” è quella parte ritenuta maggioritaria in una data società, che non esplicita pubblicamente le proprie opinioni ed è generalmente scarsamente partecipante alla vita politica, ma che spesso la influenza in forma passiva. Pietro Nenni parlò al riguardo di “piazze piene e urne vuote”, Giuseppe Saragat di “destino cinico e baro”: espressioni che volevano fotografare la paradossale contraddizione tra l’eclatante consenso delle piazze e financo dei circoli culturali a certe idee e teorie politiche e la loro sostanziale sconfitta nella latente opinione della gente.

La storia democratica è piena di queste esperienze: spesso la maggioranza silenziosa non ha determinato il corso degli eventi, ma solo un reazionario freno alla loro evoluzione. I regimi riescono generalmente a rendere esplicito il mugugno della protesta silenziosa, trasformandolo nel grido dell’illusione popolare. L’attuale fase storica vede nel nostro Paese una notevole saldatura fra umore sommerso ed espressione anti-politica: Lega e M5S vanno a gara in questo senso e riescono a interpretare nelle urne e nelle istituzioni il sentimento di rifiuto e stanchezza rispetto ai problemi, vuoi riportandoli da una dimensione mondiale ed europea ad una logica nazionalistica, vuoi reagendo alle sfide della globalizzazione con il ritorno alle rassicuranti identità di popolo e di razza, vuoi seminando, nel campo della paziente gradualità delle soluzioni, la zizzania delle facili illusioni.

La sinistra, di fronte a questo micidiale rischio di liquidazione della politica a livello di stomachevole e fastidiosa cianfrusaglia, è tentata di reagire chiudendosi nei salotti perbene dove si pontifica teoricamente, si snobbano le ansie della gente comune e si prescinde da un rapporto reale con le persone. Mentre la maggioranza silenziosa esce dal proprio silenzio, la minoranza rumorosa entra nella propria clausura.

Il berlusconismo nel suo ventennio di fulgore era riuscito a tradurre il silenzio maggioritario in voto silente: le urne non a caso davano risultati molto diversi rispetto ai sondaggi d’opinione. Pubblicamente quasi ci si vergognava di seguire la strada tracciata da un affarista cinico e baro, ma nel segreto dell’urna si buttava il portafoglio oltre l’ostacolo. L’intruglio pentaleghista ha addirittura spazzato via ogni residua inibizione, sostituendo alla politica degli affari quella delle paure e delle illusioni. Di male in peggio. Questa situazione, se si vuole, è plasticamente rappresentata dalla rissa continua e condivisa del governo contro tutto e tutti, mentre dall’altra parte il partito democratico si rifugia sull’Aventino a guardarsi l’ombelico in tutta solitudine.

Anche durante il periodo della cosiddetta prima repubblica era evidente la distinzione tra clamore sociale e culturale, egemonizzato fino ad un certo punto dal PCI, e consenso elettorale ottenuto dalla DC.  Poi al Pci sfuggì di mano la ribellione socio-culturale e fu terrorismo rosso; la DC perse gradualmente l’etica governativa; in mezzo il PSI craxiano si (im)pose quale forza moderna (?) di proposta intermedia. Diventarono tutte minoranze rumorose o silenziose, finché un bel mattino non si svegliò Silvio Berlusconi e disse: diventerò capo del governo e tutti staranno in silenzio ad adorarmi. Non fu proprio così, ma quasi.  Ed eccoci piano piano arrivati ai giorni nostri: la stragrande maggioranza silenziosa ha preso il potere è diventata rumorosa e osa gridare senza ritegno: tutti ladri! tutti stupidi! viva Grillo, viva Salvini, viva Trump. Un tempo la minoranza più rumorosa gridava nelle piazze: viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse Tung. Corsi e ricorsi storici?