Mattarella all’opera

L’Attila, con il quale la Scala di Milano ha inaugurato la sua stagione operistica (spettacolo bello pur nella sua pesantezza scenografica, registica e financo musicale), passerà alla storia non per gli interpreti vocalmente prestanti (Verdi era ancora legato più ai ruoli che ai personaggi), non per la direzione di Riccardo Chailly esageratamente propenso a spremere l’impossibile da un’opera che ha la sua bellezza nella stringata alternanza tra momenti banali e puntate sentimentali, non per la messa in scena colossale e ridondante di ammiccamenti (a quando la fine delle ormai logore e stucchevoli trasposizione storiche?), non per la solita sarabanda alla milanese di elegantone con generosi seni in precaria e provocatoria visibilità, di personalità in impettita permanente esibizione e di media attenti solo al lussuoso guscio dell’evento, non per il successo generosamente e genericamente tributato dal pubblico, ma per il più lungo applauso che un presidente della Repubblica  potesse incassare al netto del solito vuoto cerimoniale.

Il folto pubblico della Scala ha tributato un’accoglienza strepitosa a Sergio Mattarella con un interminabile e partecipato applauso. Tutti hanno colto la particolarità del fatto, forse pochi hanno cercato di capirne il poliedrico e profondo significato.  Quando Riccardo Chailly, sorpreso dall’intensità e dalla lunghezza dell’applauso, si è girato verso il palco reale con la bacchetta alta e con un chiaro cenno di adesione alla festa, si è capito che tutta l’Italia voleva dare un segnale di apertura a tutto il mondo tributando un chiaro elogio ed un solidale invito al Presidente: l’elogio per come viene interpretato il suo massimo ruolo istituzionale, per lo stile con cui viene svolta la sua funzione, per la sobrietà dei suoi modi, per la credibilità della sua storia personale, per la sua capacità di rappresentare le migliori istanze e caratteristiche del Paese. Fin qui la strameritata deferenza a livello istituzionale e costituzionale.

Ma c’era dell’altro: la franca e cordiale richiesta al presidente affinché ci liberi dal cialtronismo dilagante e prevaricante, ci restituisca la politica nella sua più alta accezione, ci riapra dignitosamente le porte dell’Europa e del mondo, ci riconsegni un Paese, come lui spesso afferma, unito e solidale nella ricchezza delle diversità, lontano dalla povertà delle lacerazioni. Siamo alla riproposizione della cultura democratica contenuta nella Costituzione.

Ma come non vedere in quei frenetici battimani, in quei “bravo presidente”, una sintonia politica: la voglia di uscire dal tunnel governativo del nulla per tornare ad essere governati e non strumentalmente aizzati contro tutto e tutti. Così come Mattarella ha correttamente preso atto della volontà espressa dagli elettori, non esitando a rinfoderare le sue sacrosante armi di fronte allo sconfortante balletto dei vincitori, emerge la speranza che ora faccia un altrettanto corretto pressing istituzionale su chi sta predicando male e razzolando ancor peggio. Non so cosa sia passato nel cervello e nel cuore del Presidente durante quell’interminabile applauso, sfociato in un inno nazionale coinvolgente come non mai. Avrà rivisto il corpo esanime del fratello ucciso dalla mafia e si sarà detto: allora non tutto era ed è perduto. Avrà rivisto tutta la sua lunga testimonianza politica ed istituzionale ed avrà pensato: allora la politica esiste ancora. Immerso in una città come Milano, in un teatro come La Scala, in un evento seguito in tutto il mondo avrà riflettuto: allora l’Italia è una grande nazione, che sa guardare oltre i propri confini. Forse si sarà commosso. Io, davanti alla televisione, lo ero veramente e sinceramente.