Una questione di Var

Oggi entro di prepotenza nel bar sport e mi unisco alle discussioni e polemiche sul VAR: si tratta del Video Assistant Referee, vale a dire il metodo di arbitraggio che prevede due ufficiali di gara, che collaborano con l’arbitro in campo, esaminando le situazioni dubbie della partita di calcio tramite l’ausilio di un video su cui possono rivedere, con relativa calma, le azioni difficilmente valutabili in tempo reale.

Le polemiche sorgono prevalentemente dal fatto che l’arbitro in campo fa ricorso con una certa ritrosia a questo metodo, che lo dovrebbe peraltro mettere al coperto da eventuali possibilità di errore. Forse esiste il timore di essere ridotto ad una sorta di robot, telecomandato e condizionato dall’esterno (la difesa del proprio ruolo e del proprio status). È pur vero che non si può pretendere l’intervento del Var ad ogni piè sospinto, ma un uso più puntuale e coraggioso non guasterebbe, eviterebbe agli arbitri brutte figure e toglierebbe il dubbio dei favoritismi all’una o all’altra squadra, soprattutto alle grandi squadre: nel calcio infatti, come in molti altri campi, non esiste la tendenza a stare dalla parte del più debole, ma quella di schierarsi dalla parte del più forte. Quando poi si incontrano due grandi fra di loro, il pasticcio diventa ancora più imbarazzante.

In questi giorni finalmente l’attenzione si era portata sui comportamenti razzisti e grotteschi delle tifoserie, sugli atteggiamenti isterici dei fuoriclasse del pallone (forse sarebbe meglio ribattezzarli fuoriditesta), delle spese enormi sostenuta dallo Stato per garantire l’ordine pubblico prima, durante e dopo gli incontri, della violenza insinuatasi anche nel calcio minore, laddove i ragazzini-giocatori vengono aizzati dai loro genitori contro arbitri ed avversari. È durata poco, perché il Var si è ripreso il centro della scena e tutto il resto è stato rapidamente dimenticato.

Se devo essere sincero, del Var non mi interessa un bel niente, faccio come un carissimo amico di mio padre: era un amante della compagnia e ad essa sacrificava i propri gusti; non gli interessava il calcio, ma a volte andava con gli amici allo stadio; non era un giocatore di carte, ma osava cimentarsi con lo scopone scientifico. Tutto pur di stare in compagnia, senza rinunciare alla propria personalità.

Dagli spalti lanciava le sue provocazioni. Durante la partita, magari in una fase piuttosto tranquilla a centro-campo, si metteva a gridare: «Opso! Arbitro, opso!». Era la sua versione dell’inglese off-side, fuori-gioco in italiano. A chi gli faceva osservare che il problema in quel momento non esisteva, rispondeva: «Cò vót ch’a sapia mi, andì sémpor adrè con cl’opso lì…». Faceva il finto tonto, in realtà sapeva benissimo di cosa stava parlando, ma gli piaceva prendere in giro la gente nei suoi eccessi, anche quelli del tifo calcistico. Tra l’altro, dava sempre ragione all’arbitro. Quando tutti inveivano contro il direttore di gara, lui lo difendeva a spada tratta: «Al gh’à ragión, al gh’à ragión». Un provocatore nato. Chissà cosa direbbe del Var. Provo a ipotizzare una battuta: “As pol savér cò l’è col bagàj lì? Ani catè la manéra ‘d fär ancòrra pù cazén. Ag n’era miga abàsta…, ànca al Var…”.

Può darsi che anche l’Unione europea finisca con l’adottare una sorta di Var nei confronti del governo italiano: arriveranno tre arbitri e passeranno alla moviola i nostri conti pubblici. Non so come potrà finire la partita. Ammonizione con ammenda? Espulsione? Squalifica? Sconfitta a tavolino? Retrocessione? Non sarà meglio evitare il gioco scorretto, darsi una regolata, andare in ritiro prima di riprendere il gioco? La smetto, perché hanno capito dove sto andando a parare e mi stanno cacciando fuori dal bar sport in malo modo. Chissà perché mi è venuta voglia di entrarvi…ben mi sta!