La caduta degli asini

Non c’è giorno in cui non scoppi un piccolo o grande contenzioso all’interno del governo e della sua maggioranza parlamentare. È la volta della “prescrizione”, vale a dire di un istituto giuridico che porta all’estinzione di diritti o di reati a seguito del trascorrere di un determinato periodo di tempo. La questione è molto delicata, perché tocca da una parte principi giuridici fondamentali come la certezza del diritto, la durata ragionevole del processo, il reinserimento sociale del reo e dall’altra parte il diritto dello Stato a fare comunque giustizia per i suoi cittadini.

Su questo tema si scontrano, al di là delle scaramucce di metodo, peraltro di una certa importanza che vedremo fra poco, due impostazioni politiche nettamente contrastanti, sinteticamente condensabili in giustizialismo e garantismo. Tendenzialmente giustizialisti sono i pentastellati, i quali vogliono dare almeno l’immagine dei rigorosi pulitori del sistema: tendenzialmente garantisti sono i leghisti, che preferiscono coniugare il loro populismo con la rigorosa difesa dei diritti del singolo contro l’invadenza dello Stato e della legge.

Nel cosiddetto contratto di governo è contenuta la riforma della prescrizione: scrivere così non significa però nulla, perché cambiare le regole della prescrizione può significare accorciarne o allungarne i tempi, renderla più o meno stringente, farne uno stimolo o una salvaguardia per la magistratura lumaca, etc. etc. Qui casca il primo asino: se il programma di governo doveva essere all’insegna del cambiamento e per ciò stesso doveva essere preciso e puntuale a differenza dei soliti generici e onnicomprensivi documenti programmatici, non ci siamo in quanto anche il contratto pentaleghista  ha evidentemente l’elasticità per dire tutto e niente.

I grillini intenderebbero poi inserire l’innovazione – vale a dire la sospensione dei termini prescrittivi dopo la sentenza di primo grado (in parole povere un allungamento dei tempi) – facendola confluire nel provvedimento legislativo anticorruzione (un fiore all’occhiello), mescolando capre e cavoli con un emendamento spot e magari con la quadratura del cerchio, aggiungendo cioè nel titolo del ddl Anticorruzione anche “in materia di prescrizione del reato”. E qui casca il secondo asino: la trasparenza e la linearità delle procedure parlamentari doveva essere una novità, mentre si ricade bellamente nella solita e confusa mescolanza di provvedimenti disorganici e incasinati fin dalla loro nascita.

Sullo sfondo dei lavori parlamentari poi spunta il discorso di porre la questione di fiducia su un altro provvedimento, quello inerente la “sicurezza”, per chiudere in qualche modo la disputa parlamentare su questo decreto, per il quale, tanto per cambiare, non c’è accordo. E qui casca il terzo asino: il ricorso ai voti di fiducia non era una pratica antidemocratica e antiparlamentare da evitare accuratamente e scupolosamente? Tutto dimenticato e superato!

L’asino più grosso casca però non tanto in senso metodologico o procedurale, ma in senso squisitamente politico: abbiamo un governo, che sui temi fondamentali non è omogeneo; non si comprende quale linea porti avanti in politica estera, nei rapporti con la Ue, in campo giudiziario, in campo assistenziale etc. etc. Avrebbero bisogno di un provetto mediatore a livello di presidente del Consiglio, un politico coi baffi che dipanasse le aggrovigliate matasse, mentre invece si sono affidati a un tecnico assai sprovveduto politicamente parlando e per di più tendono a sminuirne ruolo e poteri imbrigliandolo continuamente in un balletto salvinian-giorgettian-dimaiano da cui esce aggrovigliato lui stesso in mezzo ai  gomitoli governativi. Più che del governo di cambiamento si può parlare di governo “dell’ucasizzazione”, vale a dire affidato all’Ucas, ufficio complicazione affari semplici. Con l’aggravante che gli affari del governo Conte non sono affatto semplici e quindi la complicazione finisce con l’essere una solenne presa per i fondelli laddove la semplificazione doveva rappresentare una bella novità. C’è un detto popolare che avvalora una sciocca ma simpatica superstizione: “Frä barbä, béla novitä!”. Peccato che nel governo Conte non ci siano frati con la barba, ma ministri che fanno venire la barba.