Il prete nell’acqua

Abbiamo l’acqua alla gola. Non è un modo di dire per fotografare gli andamenti di politica economica, ma la fotografia della situazione climatica che stiamo vivendo. Ricordo che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissja fär? Lasär lì ‘d tirär al fiè?». Lo diceva forse anche per mettere fine ai pietismi di maniera che non servono a nulla e vanno molto di moda.

Di fronte all’allarmismo giustificato, ma mediaticamente cavalcato e spropositatamente enfatizzato, ci si potrebbe chiedere: e allora cosa facciamo, ci chiudiamo in casa a piangere sull’acqua versata? Non usciamo più per paura che un albero ci caschi in testa?  Mi sembra che anche dal punto di vista climatico e meteorologico non si vada oltre la strumentalizzazione delle paure. La paura degli immigrati ci assolve dalle ataviche responsabilità nei confronti dei nostri simili, che vivono in condizioni disperate. La paura delle alluvioni ci può portare a sopravvivere rispetto agli andamenti climatici, a galleggiare nelle tempeste che ci colpiscono, in fin dei conti a voltarci dall’altra parte, ad alzarci in punta di piedi se l’acqua è troppo alta.

Il clima è cambiato, non so fino a qual punto sia ascrivibile ad una imprevedibile evoluzione naturalistica oppure ad una scriteriata mercificazione dell’ambiente. Non ho risposte precise e non penso di essere l’unico, anche se i grilli parlanti abbondano.  Tuttavia, se cambia il clima, se il territorio è devastato, se l’aria è inquinata e ci mette in guerra con l’acqua che ci sommerge, dovremo pure porci il problema di riequilibrare il nostro umano comportamento rispetto a questi sconvolgenti mutamenti. Non con l’allarmismo del momento, ma con il senso di responsabilità di dover rifare i nostri conti.

Da una parte siamo sommersi, oltre che dall’acqua, da una valanga mediatica angosciante quanto superficiale e spettacolare: basti pensare che certe televisioni chiedono ai loro spettatori di inviare immagini, le più choccanti possibili, dei rovinosi fatti alluvionali. Dall’altra, mentre si parla di miliardi di danni, la politica è in grado di raggiungere simili livelli finanziari di intervento in soccorso della popolazione disastrata. E non cedo alla facile demagogia del pretendere che siccome piove, il governo la smetta di essere ladro.

In mezzo dovremmo starci noi cittadini del mondo. Siamo disposti a convertire le nostre stucchevoli “maratone domenicali” in battaglie pedonali quotidiane? Siamo disposti a trasferirci armi e bagagli dai nostri “nidi” veicolari per frequentare gli squallidi casermoni dei bus urbani ed extra-urbani? Siamo disposti ad adottare un comportamento rigoroso in materia di gestione dei rifiuti? Siamo disposti a qualche sacrificio fiscale da indirizzare alla salvaguardia del territorio, a trasformare il famigerato e storico “soccorso invernale” in razionale difesa dell’ambiente in cui viviamo? Siamo disposti a piantarla con l’abusivismo e la rapina a mano disarmata del territorio? Siamo disposti a trasformare l’ambientalismo da salotto in un ambientalismo ruspante che ci tocchi nel vivo? Siamo disposti a diventare tutti operatori della protezione civile, senza fare casino e disturbare chi lavora, ma impegnandoci a fare qualcosa di concreto (meglio prima che dopo i cataclismi)? Forse sto facendo la poesia dell’antipoesia…

Sapete invece cosa stiamo rispondendo? Ci orientiamo a votare per chi tende a negare il problema dell’inquinamento atmosferico (leggi Donald Trump e suoi amici interni ed esterni). Facciamo un po’ di casino pre e post mediatico tra un’alluvione e l’altra. Scarichiamo colpe a destra e manca. Imprechiamo contro tutto e tutti. Buttiamo il prete nella…nell’acqua e chi si è visto si è visto…