I grillopedanti di favoletta in favoletta

Ricordiamoci di un argomento che ha tenuto banco per diverso tempo (su di esso qualcuno aveva impostato la campagna elettorale e stravinto le elezioni): il ponte sullo stretto di Messina, tema che ha periodicamente a caratterizzato in senso inconcludente le fasi politiche più difficili e concitate. Tempo fa ascoltai con interesse e stupore il commento al riguardo di Eugenio Scalfari: con un ironico, letterario ma pertinente richiamo a “Scilla e Cariddi”, introdusse la sua pregiudiziale, vale a dire la diffidenza verso un’opera grandiosa, che dovrebbe resistere all’usura del tempo e alle intemperie di una zona vocata al tremendo attacco ambientale.  Qualche giorno dopo incontrai un mio carissimo amico, che ha lavorato per anni nel settore delle opere pubbliche. Mi ha snocciolato un discorso paradossale, ma scientificamente, a suo dire, inoppugnabile: non esisterebbero materiali per costruire il ponte sullo stretto in grado di resistere all’impatto che tale opera subirebbe nel tempo. Tutti lo sanno, ma fanno finta di niente per non intaccare le fantasie programmatiche e le parcelle consulenziali. La vendo così come l’ho comprata, non sono in grado di riportare il ragionamento tecnico che corrisponde pari-pari a quello letterario di Scalfari.

Me ne sono ricordato in questi giorni di sarabanda post-disastro del crollo del ponte genovese. A livello di difficoltà territoriali, ambientali e climatiche Genova non è forse da meno dello stretto di Messina. Il ponte Morandi, costruito fra il 1963 e il 1967, aveva le caratteristiche per resistere all’usura del tempo? Quindi il crollo è una questione di omessa o carente manutenzione o siamo in presenza di una costruzione non avente fin dall’inizio i requisiti di sicurezza? Non so se qualcuno potrà mai riuscire a stabilirlo, anche se non sarebbe una questione da poco. Danilo Toninelli, ministro competente, sì ma solo per area governativa, e il vice-premier Luigi Di Maio, analfabeta tuttologo, hanno già le idee chiare al riguardo: «La colpa è di Autostrade per l’Italia e la famiglia Benetton che ne è la proprietaria, oltre naturalmente all’Unione Europea (il parafulmine grillo-leghista).

Qualcuno, ha esercitato la propria memoria ed è riandato al 2013, quando i pentastellati da soliti odiatori pregiudiziali delle grandi opere, sposavano con veemenza la posizione dei comitati del “no” alla Gronda di ponente, la bretella autostradale, che sarebbe servita ad agevolare il traffico lungo il tratto oggi interrotto drammaticamente dallo sbriciolamento del ponte come fosse di cartapesta. I grillini sostenevano letteralmente: «Ci viene poi raccontata, a turno, la favoletta dell’imminente crollo del ponte Morandi». A loro così rispondeva il presidente della Confindustria locale: «Quando tra dieci anni il ponte Morandi crollerà e tutti dovremo stare in coda nel traffico per delle ore, ci ricorderemo il nome di chi adesso ha detto “no” alla Gronda».

Sembra un racconto surreale, che invece è supportato da documenti ed elementi inconfutabili. Morale della favola: chi prevedeva in anticipo di cinque anni il disastro non ha saputo sostenere questa previsione con le unghie e coi denti (i grilloparlanti, che fanno una certa impressione e rabbia); chi si opponeva, per partito preso, all’opera stradale sostitutiva o comunque alternativa al viadotto (i grillopotenti, che fanno pena) hanno cambiato parere e pontificano su due piedi scordandosi il passato.