La nazizzania è dura da estirpare

Il mar Mediterraneo è la culla-bara per tanti migranti in disperata fuga dall’inferno africano, ma è anche l’annosa sede del conflitto israelo-palestinese, la madre di tutti i conflitti medio-orientali. In questi giorni papa Francesco ha preso in quel di Bari un’ecumenica iniziativa di sensibilizzazione al riguardo: ha dialogato e pregato con i Patriarchi per invocare la pace in Medio Oriente.

Proprio in contemporanea rispetto alle cronache del viaggio-tuffo lampo del papa, ho letto la sintetica biografia di Uri Avnery, un giornalista e pacifista israeliano, nato in Germania nel 1923 e fuggito in Palestina durante il periodo nazista. Costretto a prender parte alla prima guerra arabo-israeliana, racconta le atrocità fatte subire ai palestinesi; alla fine del conflitto continuerà a battersi per la pace. Nel 1993 fonda Gush Shalom (“Il blocco della pace”), movimento di condanna dell’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, e denuncia i crimini di guerra israeliani nei Territori Occupati. Nel 2001 riceve il Right Livelihood Award insieme alla moglie Rachel (morta nel 2011), compartecipe del suo impegno.

Mi sono sempre chiesto come può una nazione (non uso il termine popolo perché mi sembra esagerato), che ha subito lo sterminio nazista, comportarsi in modo così violento e cruento con i palestinesi, non riuscendo a trovare il bandolo della matassa per una coesistenza pacifica e continuando da decenni ad oscillare fra timidi armistizi e spregiudicati attacchi, fra vendette atroci e pause diplomatiche, fra difesa dei propri confini e sistematica violazione dei confini altrui. È paradossale che gli eredi dei milioni di ebrei torturati e massacrati nei campi di concentramento nazisti covino nella loro politica nazionale un odio verso coloro che si ostinano testardamente a considerare usurpatori rispetto al loro territorio. Non c’è Onu, Vaticano, autorevole appello che tenga. Certamente i palestinesi non sono mammolette e fanno di tutto per provocare irrazionalmente la continuazione di un conflitto, che li vede sistematicamente soccombere di fronte alla notevole forza israeliana.   L’Occidente, gli Usa, l’Europa, hanno enormi responsabilità al riguardo: hanno preferito e continuano a preferire la politica dello struzzo ad una precisa, decisa contestazione del comportamento di entrambi i belligeranti, ad un serio aiuto diplomatico per risolvere un problema sorto anche e soprattutto dagli equivoci del dopo conflitto mondiale.

Credo tuttavia che la soluzione di questo enorme problema non stia nelle trattative diplomatiche: ne abbiamo viste fallire tante, a tutti i livelli. Non se ne esce se gli israeliani non capiscono e partono da un concetto, che Uri e Rachel Avnery mettono bene in chiaro: “La violenza fa parte della resistenza all’occupazione. Il punto fondamentale non è la violenza; il punto fondamentale è l’occupazione. La violenza è un sintomo; l’occupazione è la malattia, una malattia mortale per tutti gli occupati e gli occupanti”.

Posso tentare di capire l’immenso risentimento post-Shoah ed i postumi della zizzania nazista, che continua ad infestare ed infettare il campo,  posso intuire i motivi religiosi che fanno da schermo ai venti di guerra, posso ammettere il timore che, aperta una breccia,  nel fortino israeliano possa succedere un secondo finimondo, posso concedere tante attenuanti umane, politiche, storiche, religiose al rigido comportamenti israeliano, ma è assolutamente necessario e pregiudiziale che gli israeliani si convincano che per andare avanti bisogna guardarsi alle spalle, ma se poi non ci si decide a fare un passo si resta fermi e addirittura si ripiomba nel passato. Scrivono Uri e Rachel Avnery: “Devi combattere per l’anima del tuo popolo, devi combattere per le anime di milioni di persone da entrambe le parti, per superare l’eredità di questa lotta e creare la pace”. Che le preghiere di papa Francesco e dei suoi colleghi patriarchi possano arrivare laddove le volontà dei governanti non riescono a cavare nemmeno un ragno di pace dal buco del disastro nazista, a cui faccio risalire l’imperversante clima di incomprensione. Quando si avvelenano i pozzi è difficile bere acqua pulita.