L’irrazionale precariato governativo

Ho avuto l’opportunità, alcuni anni or sono e per un breve periodo, di presiedere una cooperativa sociale operante nel campo dell’avviamento al lavoro di soggetti svantaggiati tramite l’esercizio di attività economiche, svolte prevalentemente in convenzione o in appalto con enti pubblici. Gran parte di questa attività aveva su di sé la spada di Damocle di contratti a scadenza piuttosto breve: si lavorava quando e come il mercato lo consentiva. Ricordo perfettamente il dramma di essere costretti a precarizzare il rapporto coi soci-lavoratori o addirittura coi lavoratori, per i quali non aveva senso diventare soci proprio perché il loro rapporto di lavoro era necessariamente all’insegna della provvisorietà.

Purtroppo nel nostro sistema economico il lavoro non è e non può essere, al di là del furore ideologico sessantottino, una variabile indipendente. Per dirlo con termini lessicali moderni, alla incertezza del mercato ed alla conseguente flessibilità dell’economia aziendale deve corrispondere una certa flessibilità del fattore lavoro. I contratti di lavoro a termine o provvisori come dir si voglia, quasi sempre, non sono frutto di imprenditori d’assalto, senza scrupoli o di comodo, ma rappresentano una scelta obbligata: se un’impresa stipula un contratto d’appalto con un Comune con validità di un anno, come può assumere a tempo indeterminato coloro che lavorano su questa commessa?

Quante volte, alle prese con cause giudiziarie inerenti i rapporti di lavoro, ho visto la paradossale rigidità legislativa in materia di licenziamenti funzionare da premio indiretto all’assenteismo ed alla irresponsabilità dei lavoratori e penalizzazione indiretta a chi potrebbe e vorrebbe lavorare con impegno e serietà. Anche il sindacato ha le sue responsabilità avendo difeso, in troppi casi, sempre ed indistintamente cani e porci, fannulloni e profittatori, soprattutto nell’area pubblica, contrattando la garanzia del posto fisso con i privilegi nell’orario di lavoro, nei diritti pensionistici e nella tolleranza verso i furbetti del cartellino.

L’attuale governo sconta la necessità di equilibrare le proprie sparate: alle sgangherate scelte sulla politica dell’immigrazione rispondono le strumentali scelte restauratrici in materia di lavoro. Un colpo al cerchio e uno alla botte, un colpo con la demagogia di destra e uno con la demagogia di sinistra. La unilaterale chiusura dei porti, l’attacco pregiudiziale alle ong, la ventilata schedatura dei rom, valgono bene lo specchietto delle allodole di un accorciamento dei contratti di lavoro a termine, un innalzamento dei risarcimenti per i licenziamenti immotivati, un contentino di facciata ai potenziali lavoratori dipendenti.

Sergio Cofferati sostiene che l’aumento dei dati occupazionali sia sostanzialmente dovuto alla trasformazione dei contratti a tempo indeterminato in un maggior numero di contratti a termine. Non sono in grado di verificare se i dati gli diano ragione, ma il problema è quello di cui sopra: non si può pretendere una politica occupazionale del posto fisso a fronte di un’economia che di fisso e stabile non ha nulla. Questa, a casa mia, si chiama demagogia.

Il mio impegno diretto in politica fu caratterizzato dall’appartenenza ad una corrente di sinistra all’interno della democrazia cristiana, quella di matrice sindacal-aclista, guidata in quegli anni da Carlo Donat Cattin, uomo di formazione ed esperienza sindacale, che fu ministro del lavoro nel periodo del cosiddetto autunno caldo (1969) e seppe coraggiosamente coniugare i diritti dei lavoratori, verso i quali espresse nei fatti una scelta preferenziale, con una politica di stampo riformista e costituì la felicissima eccezione alla regola, che storicamente vede gli ex-sindacalisti malamente impegnati in politica ed in economia (sì, perché politica e sindacato sono due cose assai diverse).

Non posso quindi essere tacciato di mentalità antisindacale o di scelta politica filo-industriale: cerco di ragionare con la mia testa. Oggi, più che mai, ragionare è diventata una scelta politica di metodo, ma anche di merito. Ho infatti ascoltato alcuni passaggi del comizio “descamisado”  salviniano a Pontida, ho ascoltato le avance “doppiopettiste” dimaiane: sono le due facce della stessa medaglia irrazionale, che circola nella politica odierna con tanto di (sempre più) insopportabile grancassa mediatica.