Prima noi o loro: questo è il falso dilemma

Pochi giorni or sono mi è capitato di sedermi sul bus vicino a due ragazzini: una disinvolta e scosciatissima femmina e un imbronciato maschio, entrambi inevitabilmente alle prese con l’irrinunciabile smartphone e relativo auricolare. Non ho nemmeno minimamente pensato di attaccare discorso, tanto era la loro astrazione dal mondo. Mi sono solo chiesto: cosa ho io da spartire con i virgulti di queste generazioni? Niente! La bellezza delle ragazzine mi spiazza: non saprei da dove cominciare per corteggiarle, non mi lustrano gli occhi, non mi turbano per niente sul piano sessuale (ci riescono ancora le provocanti e affascinanti tardone, che le battono due a zero, in tutti i sensi). L’arroganza dei maschietti mi fa letteralmente pena: sprizzano ignoranza e presunzione dai pori della pelle, con un sottofondo di violenza pronto ad esplodere alla prima triste occasione.

Ho guardato altrove ed il mio sguardo si è incrociato con quello degli immigrati e delle immigrate che affollano i bus nostrani. Ho trovato immediatamente qualcosa da spartire con loro: la sofferenza della vita, la battaglia per la giustizia sociale, la voglia di comunicare (anche sguaiatamente: preferisco i loro sgarbati dialoghi ai nostri silenzi egoistici), il desiderio di darsi una mano. Meglio la loro puzza di sudore rispetto ai perbenistici profumini (?) dei ragazzini nostrani. Mi sono accorto però che anche molti di loro tirano fuori i telefonini di ultima generazione e navigano bene, alla faccia dei loro connazionali in mezzo al mare sballottati più dai nostri pruriti tardo-razzisti che non dalla violenza delle onde. Anche loro stanno passando nella categoria degli “incomunicativi”, si integrano al peggio, si accontentano delle briciole informatiche che cadono dalla tavola dei loro padroni.

Poi ho pensato a Donald Trump e a Matteo Salvini: “prima noi di loro”, dicono ripetutamente. Sta già succedendo nel senso che trasmettiamo loro i nostri difetti, le nostre chiusure, i nostri egoismi. Sul piano culturale mi sento di capovolgere lo slogan populista che va per la maggiore. “Prima loro di noi”. Sì, perché nella loro estrema povertà hanno qualcosa da chiederci e darci e che noi abbiamo perso per strada: il senso della solidarietà tra poveri (i ricchi vivono in un altro mondo!). Quante volte ho sentito ripetere da persone di una certa età: un tempo si era poveri, ma ci si voleva bene, ci si aiutava, si era capaci di condividere il poco che si aveva.

E allora in conclusione ho ripensato a mia madre quando si inserì, dopo il suo matrimonio, nell’Oltretorrente: il lavoro, svolto con onestà, garbo e, perché no, con una certa classe, la aiutò a trasformarsi da corpo estraneo a componente accettata e stimata, integrandosi nel rione con le solite, efficaci “armi” della solidarietà nel rispetto reciproco, aprendosi al dialogo con tutti senza prevenzione alcuna. Mia madre mi insegnava lo stile di vita con cui era riuscita a collocare il suo modo di essere nel contesto socio-culturale dell’Oltretorrente. Vi era l’adesione convinta ai comportamenti solidali che vedevano protagoniste soprattutto le donne abitanti del quartiere: le questue a favore delle famiglie colpite da un lutto, il sostegno agli operai che perdevano il lavoro e via discorrendo, in una forma spontanea, primordiale e geniale di protezione sociale.

L’Oltretorrente è diventato un ghetto di extracomunitari in cui la gente ha paura a vivere e persino a transitarvi di sfuggita. Il discorso, nel mio cervello (e nel cuore) si stava facendo complicato e delicato. Nel frattempo ero arrivato a destinazione. Sono sceso dal bus. Ho urtato i ragazzini incollati ai cellulari: non mi hanno nemmeno degnato di uno sguardo.