I capo-classe della scuola degli asini

Mia madre acutamente ed ironicamente osservava, sferzando la rivoluzione avvenuta nei costumi di vita: «Il dònni i volon fär i òmmi e i òmmi i volon far il dònni: podral andär bén al mónd?». Non era una avanguardista, ma nemmeno una antifemminista, nemmeno una retrograda: voleva eticamente osservare come l’essenziale sarebbe che ognuno cercasse di svolgere al meglio il proprio ruolo, senza interferire pesantemente con quello altrui, anzi rispettandolo scrupolosamente pur esercitando il sacrosanto diritto di critica.

Nella nostra società sta succedendo esattamente l’opposto. I genitori vogliono “insegnare agli insegnanti” andando talora per le vie spicce; i figli vogliono dettare il comportamento ai genitori come se fossero semplicemente degli amici con cui giocare; in campo religioso spesso i laici sono più clericali dei preti; per dirla con una stupenda battuta ironica di un amico sacerdote, sono più le donne che vanno a preti dei preti che vanno a donne. Questa inversione di ruoli non ha nulla a che vedere con processi di emancipazione o con rivoluzioni culturali, ma discende dalla pochezza dell’io scaricata sugli altri.

Vengo all’occasione che mi ha sollecitato queste riflessioni: il vomitevole processo intentato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini contro il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un analfabeta ed un bulletto della politica che, anziché incontrarsi per chiacchierare in un periferico e scalcinato bar sport, si danno appuntamento al Quirinale per insolentire e offendere il Capo dello Stato, reo soltanto di averli presi troppo sul serio, mentre avrebbero meritato di essere ignorati nonostante i voti raccolti e sbandierati.

Mio padre, esaminando i miei quaderni, con malcelata soddisfazione, lamentava i giudizi un po’ troppo severi della maestra, frutto del suo vecchio stile di insegnamento e del suo atteggiamento piuttosto severo. Sorridendo si riprometteva di andare a colloquio con la maestra stessa ed ipotizzava simpaticamente di indirizzarle questa bonaria critica: “Sa, signora maestra che lei è un po’ stitica”. Non vi dico le risate di tutta la famiglia, anche perché mio padre si premurava di aggiungere: “A t’ capirè se mi a m’ permetriss äd criticär ‘na méstra”. Come si permettono questi baluba della politica di censurare il comportamento ineccepibile del Presidente Mattarella, solo perché ha loro chiesto di cambiare un ministro, ritenuto, in base alla sua assoluta discrezionalità saggiamente prevista dalla Costituzione, inadatto a svolgere un ruolo di referente rispetto alle istituzioni europee. Cosa ne sa Di Maio dell’Europa, della sua storia, del contributo dell’Italia al processo di integrazione europeo?  Cosa può dire Salvini, un parlamentare europeo capitato per caso a Strasburgo, vista la sua vergognosa latitanza in questo ruolo? Cosa sanno questi signori di rispetto della Costituzione e fin dove può spingersi un programma di governo ? Cosa sanno dei tanti elementi di giudizio e valutazione raccolti da Mattarella in questi lunghi giorni di consultazioni? Ma il punto grave della situazione non sta tanto nella clamorosa e presuntuosa ignoranza di questi personaggi da avanspettacolo, ma nell’ascolto e nel seguito che ad essi concedono gli italiani e nell’appoggio alle loro stravaganti iniziative politico-istituzionali.

Solo una volta mio padre si prese la libertà di esprimere il suo dissenso rispetto al mio maestro di 4° e 5° elementare (persona che ricordo con tanto affetto e riconoscenza). Riferivo in famiglia, come sono soliti fare i bambini, che il maestro chiamava alla lavagna un alunno per segnare i nomi dei compagni buoni e cattivi – si diceva e si scriveva proprio così – per segnalare chi, magari durante la momentanea assenza del maestro, si comportava in modo più o meno indisciplinato. Era una prassi decisamente discutibile sul piano etico, educativo ed umano e mio padre, senza dirlo apertamente e, quindi, senza censurare direttamente la caduta di stile del maestro (peraltro bravo, aperto e moderno), mi consigliò, in modo pacato ma convincente, di opporre, nel caso mi fosse rivolto l’invito, il mio rifiuto a quella sciocca schedatura dei compagni di classe. Rispondi educatamente così: “Signor maestro Le chiedo di poter rimanere al mio posto e, se possibile, di non avere questo incarico”. Si trattava di una piccola, bella e buona, obiezione di coscienza, volta ad evitare confusione di ruoli, a rispettare la dignità degli altri ragazzi, a rifiutare ogni e qualsiasi tentazione per forme più o meno velate di delazione. Capii  abbastanza bene il suggerimento paterno e non mancai di metterlo in pratica alla prima occasione: il maestro, persona molta intelligente, girò  in positivo il rifiuto di fronte alla classe,  quasi sicuramente capì che non si trattava di farina del mio sacco, trovò subito chi era disposto a sostituirmi, assorbì, è il caso di dire in modo magistrale, il colpo che non gli bastò per interrompere una prassi piuttosto generale, ma non per questo meno sbagliata e insulsa, probabilmente rifletté sull’accaduto: il risultato era stato raggiunto. A Salvini e Di Maio farebbe molto comodo avere un padre come il mio: saprebbero stare degnamente al loro posto, non avrebbero la faccia tosta di sostituirsi a chi per ruolo, cultura, sensibilità, esperienza è loro maestro, eviterebbero di andare alla lavagna per iscrivere addirittura tra i cattivi Sergio Mattarella.