La mantide salviniana

Si era capito benissimo che in corso d’opera, o addirittura prima ancora di iniziare l’opera contrattuale, Matteo Salvini moriva dalla voglia di far saltare il tavolo per due motivi facilmente intuibili: la smania di incassare in fretta il dividendo elettorale emergente dai sondaggi, dalle consultazioni locali e dalla debolezza dei partner della coalizione di centro-destra; evitare il rischio di uno schiacciamento sul M5S protagonista principale del governo del cambiamento. Dal momento che la politica è diventata un fatto di mero impatto mediatico, l’acqua va colta mentre passa, non si può aspettare perché domani è un altro giorno e si vedrà.

Cosa ci azzecca infatti Paolo Savona con la Lega? Solo il pretesto per tirare la corda e buttare all’aria tutto facendo ricadere la colpa sulle intromissioni europee, sui poteri forti, sui mercati, sul Presidente della Repubblica, su quanti brigherebbero per impedire la formazione di un governo del cambiamento. Motivazioni infondate, pretestuose e fantasiose. La migliore dimostrazione sta nel fatto che la Lega ha sdegnosamente rifiutato l’assegnazione del ministero dell’economia al suo esponente di grido, Giancarlo Giorgetti: in quel caso sarebbe stata messa alla prova e tutti avrebbero potuto valutare la effettiva capacità di governo e di cambiamento degli urlatori. Troppo difficile, meglio mollare tutto senza rischiare sputtanamenti quasi sicuri.

Possibile che gli italiani cadano in queste trappole? Purtroppo sì. È in atto la gara fra chi meglio riesce ad interpretare o addirittura a cavalcare la montante onda protestataria fine a se stessa. In tal senso è scoppiato un odio-amore tra Lega e M5S e Matteo Salvini ha temuto di essere risucchiato e spompato nel letto matrimoniale grillino. Ha preso le distanze, proprio come si fa nei rapporti amorosi in crisi, ha chiesto una pausa di riflessione. Non si è fidato di un improvvisato garante, come Giuseppe Conte, visto e subito come puro portavoce grillino.  Forse per tornare ad amoreggiare col recalcitrante Silvio Berlusconi e/o con la penosa e volubile Giorgia Meloni. Probabilmente per mangiarli dopo l’accoppiamento.

Lo scenario politico italiano in vista delle prossime imminenti elezioni è alquanto incerto. Indubbiamente si stanno creando due poli sovranisti e populisti, ma non penso, come sostengono alcuni politologi, si tratti di uno schema duraturo. Sembra più una malattia passeggera della quale tuttavia bisogna temere gli effetti deleteri ed autoritari sul sistema democratico. Lo spazio residuo sarebbe disponibile per una formazione di centro-sinistra, europeista, liberista, moderata, ultrariformista: una copia più o meno conforme a “La République en Marche” di Emmanuel Macron. Questo disegno spiazzerebbe ulteriormente l’attuale partito democratico stretto nella morsa tra nostalgie ideologiche e fughe moderniste.

Potrà essere l’europeismo la nuova “ideologia” discriminante e rifondante della politica italiana? È un discorso idealmente affascinante e politicamente pregnante, ma pericoloso da riproporre in una fase storica complessa e convulsa come quella attuale. Non vorrei che, dopo la sorpresa Trump e la sorpresa Brexit, spuntasse la sorpresa grillo-salviniana. In Europa devono smetterla di provocare l’Italia: bene ha fatto Sergio Mattarella a respingere al mittente inaccettabili e grotteschi giudizi sull’Italia, apparsi su organi di stampa di un paese europeo. Oltre tutto stanno facendo il gioco di chi strumentalizza queste schermaglie per coltivare gli istinti nazionalisti pronti ad esplodere alla prima occasione. Resto convinto che il futuro italiano sia fortemente agganciato all’Europa non solo per motivi di convenienza economico-commerciale, ma per fedeltà a una visione dei rapporti internazionali solidale e collaborativa. Lo slogan coniato per la lista di Emma Bonino, “Più Europa”, potrebbe diventare il punto chiave della politica italiana.