Il vuoto in cui siamo sprofondati

Non so quale sia la scaletta del Presidente della Repubblica in merito alla soluzione del governo per il Paese: starà seguendo sicuramente una sua logica costituzionale ed istituzionale. Mi fido ciecamente. Gli abbiamo consegnato una situazione post-elettorale da brivido e non possiamo pretendere il miracolo; abbiamo rotto il sistema politico e pretendiamo che Mattarella rimetta insieme i cocci? Sarà una gara dura. Vedo esaurirsi uno dopo l’altro i suoi passaggi e comincio a dubitare del suo asso nella manica, di quel governo del presidente in cui tanto speravo. Mi pare eloquente il suo discorso del primo maggio: «Non mancano le difficoltà nel nostro cammino. Tuttavia, dove c’è il senso di un destino da condividere, dove si riesce ancora a distinguere il bene comune dai molteplici interessi di parte, il Paese può andare incontro con fiducia al proprio futuro».

C’è il senso di un destino da condividere? Si riesce a distinguere il bene comune dagli interessi di parte? Nutro seri dubbi al riguardo. Che spaventa dell’attuale situazione politica italiana non sono i contrasti, le divergenze programmatiche, le visioni diverse. Guai se non fosse così. L’Italia, per dirla con Alcide De Gasperi, è zeppa di politici che guardano alle prossime elezioni, ma è sprovvista di statisti che guardano alle prossime generazioni. Qui sta il punto dolente, la piaga in cui il Capo dello Stato sta mettendo il dito.

Se i partiti ed i politici non riescono a guardare oltre il proprio naso, tutte le soluzioni governative rischiano di infrangersi contro un muro di reciproci veti o di cadere nel vuoto ideale e programmatico in cui siamo sprofondati. Provo a fare un esempio. Mettiamo il caso che Mattarella, finite le frecce al proprio arco rivolte ai partiti, tiri fuori la sua arma migliore: un governo di altissimo profilo tecnico-istituzionale per affrontare i rapporti con l’Europa e con il mondo, per impostare una politica di bilancio rigorosa ed equilibrata  tra risanamento dei conti pubblici e ripresa economica, per dare una spinta alla ripresa dell’occupazione legata alla crescita economica, per una gestione oculata del fenomeno migratorio, per un’attenzione fattiva ai problemi della sicurezza, per una riconsiderazione della legge elettorale.

Ammettiamo che riesca ad incaricare in tal senso un personaggio di grande livello e credibilità interna ed internazionale: tanto per non fare nomi, Mario Draghi, il quale riesca a mettere in piedi una squadra di governo all’altezza della situazione. Ne sarebbe capace. Ammettiamo che questo governo ipotetico governo si presenti in Parlamento e chieda la fiducia su un programma preciso e chiaro. Cosa succederebbe?

Il buon senso vorrebbe che la proposta fosse presa sul serio, mettendo da parte gli interessi di bottega, le vittorie e le sconfitte elettorali, i veti contrapposti, le pregiudiziali personali, i risentimenti e le vendette. Non lo credo possibile. Di Maio dirà che il Paese vuole il cambiamento e non un governo tecnico. Salvini sosterrà che si tratta dell’ennesimo attentato alla democrazia. Berlusconi si limiterà a chiedere un posto per Tajani. Il PD ricorderà il 2011 e non si vorrà svenare ulteriormente. Tutti avranno mille motivi per dire no al “governo del presidente”. L’elettore medio avrà il timore che dietro un tale governo ci siano pronte le solite stangate.  Mia sorella usava spesso un’espressione dilettale, che tento di tradurre: “Quando non ce n’è, non se ne può spendere”. Credo che Mattarella se ne stia rendendo conto e, a meno di miracoli, dovrà tenerne conto e dovrà ripiegare su soluzioni di basso profilo e di breve termine. Poi andremo alle elezioni: ci arriveremo arabi e ne usciremo turchi. Comunque un grazie di cuore al presidente Mattarella, che ce la sta mettendo tutta.