Trattativa: chi nuotava nell’acqua sporca?

Ho vissuto con una certa angoscia la notizia, con la lettura del dispositivo, della sentenza della Corte d’Assise di Palermo, secondo cui la trattativa fra lo Stato e la mafia all’inizio degli anni novanta c’è stata. Lo Stato, tramite alcuni suoi alti funzionari, avrebbe sondato le cosche mafiose per cercare di interrompere la sequela di loro attentati, che stavano insanguinando e distruggendo il Paese. Non mi sento in grado di esprimere giudizi di carattere legale. Di fronte alla delicatezza di questo tema e di tale vicenda giudiziaria non mi esimo tuttavia dall’esprimere le mie idee: mi limito ad alcune osservazioni di carattere etico-politico, prendendo per buono quanto deciso dalla magistratura, seppure in primo grado di giudizio.

Può lo Stato venire a trattativa con la delinquenza? Su un piano squisitamente etico-giuridico si direbbe di no. E se e quando il rapporto con la criminalità organizzata diventa una vera e propria guerra? In guerra tutto dovrebbe essere possibile pur di evitare mali peggiori e ottenere risultati anche parziali. In guerra si scende a patti col nemico, si fanno armistizi, si tratta, senza riconoscere le pretese del nemico, senza cedimenti definitivi e senza dichiararsi per ciò stesso sconfitti.  Vale anche a livello del funzionamento statuale?

E chi dovrebbe decidere e gestire tali patteggiamenti segreti? Lo Stato medesimo? Qui sta il nodo dell’annosa inchiesta e dell’annoso processo: si è trovato il primo collegamento tra i vertici mafiosi ed alti funzionari statali, ma non si è trovata alcuna prova certa del collegamento tra detti funzionari (carabinieri) e le istituzioni (governo). Di qui la domanda: c’era qualcuno che lucrava su questi contatti, che aveva interessi a portarli avanti? Era un interesse generale dello Stato o erano interessi particolari di chi occupava lo Stato? I condannati tra le fila mafiose avevano un loro preciso disegno criminale, ma i funzionari statali a quale disegno facevano riferimento? Trattavano in proprio o a favore di chi? Non si sa. Si fanno supposizioni o illazioni, anche molto pesanti, ma non esistono dati certi.

Pur con tutto il rispetto e l’ammirazione per l’impegno della magistratura, che ha il coraggio di esporsi a vendette e rappresaglie, viene da chiedersi: ha senso imbastire una vicenda giudiziaria così monca e parziale, che rischia di screditare genericamente le istituzioni buttandole indistintamente nella pattumiera mafiosa? Purtroppo è sempre esistita una mentalità politica, che vive la mafia come una sciagura con cui fare i conti, una realtà da affrontare con pragmatismo al limite del cinismo. Non credo sia un atteggiamento serio e responsabile. Da qui a ritenere che la politica a livello istituzionale sia stata condizionata dalla criminalità e abbia trattato più o meno nascostamente con essa, ci passa molto strada.

Che nella società, politica e istituzioni comprese, ci sia del marcio è sicuro, ma non credo sia giusto e opportuno combattere il marcio spargendone gli effetti a vanvera. Attenzione a non buttare l’acqua sporca in cui nuotava la trattativa con la mafia assieme al bambino delle istituzioni, bisognose di rispetto. Quando si avvalora l’ipotesi che ci sia stata una trattativa tra potere mafioso e potere governativo si rischia grosso. O si dimostra questo teorema o si fa un pessimo servizio all’intero Paese.