Le velleitarie e chiccose frecce della sinistra

Parecchi anni or sono Massimo D’Alema, con la sua solita verve dialettica, definì la Lega nord (allora si chiamava così) una costola della sinistra, una sorta di “voce dal sen fuggita poi richiamar non vale: non si trattien lo strale, quando dall’arco uscì” (aforisma di Pietro Metastasio). Me ne sono ricordato dopo aver verificato di persona come parecchie persone storicamente legate alla resistenza, ideologicamente ispirate al comunismo, tradizionalmente elettori di sinistra, lo scorso 04 marzo abbiano scelto quasi istintivamente di votare la destra estrema (Lega) o il M5S.

Un fenomeno apparentemente inspiegabile dal punto di vista qualitativo e quantitativo. Riflettendoci sopra e parlandone con amici ho trovato però due spiegazioni plausibili sul piano ideologico e politico. L’estrema sinistra ha inculcato nella mentalità dei suoi sostenitori, soprattutto i più accaniti e fegatosi, l’idea che per essere di sinistra occorra porsi in una pregiudiziale posizione conflittuale: la massa non può scalare gradualmente la difficile montagna del riformismo, ma deve rimanere con i piedi saldamente ancorati alla protesta, alla lotta ed alla conflittualità sociale. Se la sinistra abbraccia una strategia di governo si fa fatica a seguirla ed allora, in certi passaggi e periodi particolarmente difficili, viene la tentazione di spostarsi drasticamente a destra: quando si dice che gli estremi si toccano, non si è lontani dalla verità. La scelta “pazza” può andare verso destra, ma può anche prendere la direzione del movimentismo anti-politico ed anti-sistema: quando si ipotizza un governo tra Lega e Cinquestelle, anche sulla base di una comunanza di pulsioni elettorali, non si è lontani dalla verità.

Prendendo spunto dall’aforisma di Metastasio, si può dire che lo strale velleitario dell’anti-sistema non si può trattenere una volta che sia uscito dall’arco di una sinistra parolaia e barricadiera. Se questo può essere un motivo ideologico, ve n’è anche uno politico, vale a dire la ritrosia della sinistra ad affrontare certi nodi programmaticamente scomodi per rifugiarsi in una logica salottiera, la preferenza cioè verso una impostazione intellettualmente chiccosa a danno dei problemi reali sentiti dalla gente sulla propria pelle. Mi riferisco soprattutto ai temi dell’immigrazione e della sicurezza, che hanno favorito il travaso elettorale verso la Lega di Matteo Salvini, nonché ai temi dell’affarismo, della corruzione e della povertà, che hanno spinto un certo elettorato di sinistra verso il M5S.

Il frettoloso e velleitario tentativo di recuperare la situazione, affidandosi pretestuosamente al richiamo della foresta ideologica, perpetrato da Bersani, D’Alema e c., non ha fatto altro che creare ulteriore confusione, anche perché questi esponenti si sono nel tempo burocratizzati, hanno cioè imbalsamato la sinistra senza riuscire a portarla sul vero terreno del riformismo. Il renzismo, al di là degli errori e delle carenze di Matteo Renzi, è stato bloccato in questo delicato bivio: non è riuscito a dare l’idea di una vera e definitiva scelta riformista nella capacità di governo, rimanendo a metà del guado col cerino acceso in mano, finendo col non convincere i “riformisti” e irritando i “rivoluzionari”.

Nel linguaggio, nel metodo, nel centralismo, nel velleitarismo, nell’ambiguità ritroviamo parecchie analogie tra Lega, M5S e PCI: non sono mai stato un anti-comunista, ma devo riconoscere come gli errori storici di tale partito continuino a ripercuotersi sulla politica dei giorni nostri.  Non si riescono a richiamare le frecce del passato e non si riescono a scoccare quelle del presente. Un bel guaio!