La politica sotto attacco

Il 16 aprile 1988, esattamente trent’anni or sono e a dieci anni dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro, le Brigate Rosse uccidevano il senatore democristiano Roberto Ruffilli, costituzionalista, studioso, consulente e intimo amico dell’allora segretario democristiano e presidente del consiglio Ciriaco De Mita. Dopo Moro, il quale preparava politicamente l’evoluzione del sistema partitico verso l’alternanza DC-PCI, anche tramite una propedeutica e transitoria collaborazione tra queste due forze politiche, che superasse lo scontro ideologico, Roberto Ruffilli stava portando avanti l’idea di una riforma costituzionale, soprattutto elettorale, che consentisse di creare i presupposti per una obiettiva scelta elettorale fra due blocchi, il cosiddetto bipolarismo, che togliesse al Psi, partito di minoranza, lo storico e sciagurato potere di interdizione rispetto ai due blocchi, che avevano funzionato e potevano continuare a funzionare come autentici pilastri ideologici e post-ideologici della democrazia italiana.

Le Brigate Rosse, anche nel caso della macabra esecuzione del forlivese Ruffilli, dimostrano una lucidità strategica che induce persino a dubitare della sua autenticità: le prime BR avevano la forza politica e militare per un attentato al cuore delle istituzioni impersonificato da Aldo Moro; le seconde BR hanno minore forza organizzativa, minore radicamento sociale, minore capacità militare e quindi ripiegano su figure poco difese e molto aggredibili, ma comunque emblematiche di una mediazione culturale verso il progredire della nostra democrazia nel senso del dialogo e del riformismo. Sarà veramente stata tutta farina del sacco delle BR? Sarà proprio un caso che, quando il sistema politico si evolve e si allarga, spuntano da una parte il terrorismo di matrice filo-comunista e dall’altra quello stragista di matrice filo-fascista, per interrompere, condizionare, rovinare questi passaggi delicati e complessi della nostra democrazia?

Di queste interruzioni storiche soffriamo le conseguenze anche oggi: dopo la morte di Ruffilli e dopo la fine del progetto demitiano, si è verificato il ritorno all’interno della DC di un blocco di potere e una saldatura conservatrice tra la Democrazia Cristiana e il Partito socialista, il cosiddetto CAF (patto di potere tra Craxi, Andreotti e Forlani), che portò il sistema politico e partitico a galleggiare sulla corruzione e l’affarismo, sganciandosi sempre più da ogni e qualsiasi controllo democratico dentro e fuori dai partiti.

Il bipolarismo, senza la terza fase ipotizzata da Aldo Moro e senza i riferimenti costituzionali ed elettorali studiati da Roberto Ruffilli, è sbucato all’improvviso, a metà circa degli anni novanta, dalle ceneri della corruzione del sistema partitico ed è stato cavalcato dal berlusconismo dilagante a cui si è tardivamente e sporadicamente contrapposta una sinistra divisa e rissosa. Più o meno siamo ancora lì, con il bipolarismo finito nel tritacarne dell’anti-politica, vale a dire spiazzato dalla novità devastante del sorgere o del progredire di forze populiste, che stanno ulteriormente bloccando o deviando il percorso della democrazia.

Se le BR volevano prima suscitare la pretenziosa insurrezione armata dei comunisti veraci e poi limitarsi a rovinare l’evoluzione democratica del sistema, sono riusciti quanto meno a pesare non poco sulla storia politica italiana, accentuando ed allargando quella frattura tra politica e popolo che ci sta tuttora condizionando.  In questo momento di stallo a livello politico italiano sarebbe opportuno lasciar fare al Presidente della Repubblica, che, guarda caso, non è lontano dal filone storico-culturale di matrice cattolica a cui appartenevano Moro e Ruffilli. Chissà che non abbia la capacità politica e la saggezza democratica di riprendere, a distanza di tanto tempo, un percorso virtuoso interrotto, anche con gli attentati brigatisti, e mai portato avanti seriamente. Come? Non lo so, ma sotto-sotto ci spero ancora.